Gli insegnanti e l’umanità smarrita sui libri

Perché le difficoltà nella professione tra precarietà e concorsi rischiano di trasmettere agli alunni un messaggio sbagliato e creare un pericoloso vuoto educativo

Chi ha il Tfa e chi no, chi il Pas e chi no, chi è abilitato e chi no, chi è di ruolo, chi il concorso a cattedra, chi solo gli anni di insegnamento, chi magari sta ora pensando di avvicinarsi a tale professione: l’insegnamento. Accuse. L’additarsi l’uno all’altro in circolo vizioso senza mai fine, e senza alcun fine logico. È il refrain che si addensa da anni a questa parte nel corpo insegnanti, l’esercito di lavoratori precari, vincitori di concorso, di Tfa, nelle liste Gae, in seconda fascia, in terza fascia. L’uno che crede di aver un merito maggiore dell’altro solo perché, per questioni casuali anagrafiche storiche, si è ritrovato oggi a dover affrontare prove preselettive per il tfa, il corrispettivo Pas, ed ora tutti si avvicinano al tanto atteso e mai, ancora, giunto concorso a cattedra. Al di là di quello che la scuola oggi sia divenuta, dopo anni di degradazione storico-politico-sociale, al di là della logica che impone concorsi di tal genere, e al di là della logica di profitto che ne detengono il fondale, quanto mai marcio contro qualsiasi tipo di discorso meritocratico (si va dai duemila ai tremila euro, quindi non se ne fa un discorso di competenza ma di democratica partecipazione e ricerca di occupazione; e magari si dovrebbe iniziare a pensare che non tutti possano permettersi allora di poter insegnare), ciò che avvilisce, in modo pantagruelico, degrada, è il comportamento del corpo insegnanti, o per lo meno di una parte di essi, ovviamente. L’incolparsi a vicenda, l’additarsi su chi abbia più titoli e che quindi abbia maggiore diritto di insegnare è quanto mai deplorevole.

 

Ricorda una “classe alla rovescia”: bambini pronti a menarsi le colpe con la conseguente mancanza di assoluzione di responsabilità (come è giusto che sia in una classe di bambini, poiché qui che la scuola si assurge al ruolo di educatrice!). In una situazione di questo genere viene da chiedersi se molti dei suddetti insegnanti cosa possano, appunto, insegnare. E non si parla di competenze e di conoscenze, bensì di umanità, indi per cui di contenuto e sostanza. Concetto sempre più astruso ma che poi in fondo è alla base del vivere civile (ritorna il ruolo scolastico). Insegnanti che non aspettano altro che puntarsi il dito cosa potrebbero insegnare ai propri alunni se non, forse, il solo fare bene perché così è e così si fa; “studia per diventare qualcuno”. Si ok, studio per un’avvenire, ma se lo studio comporta l’odio per il compagno di classe che magari è in difficoltà, più casinaro, senza che io mi imponga ad aiutarlo, o magari ad imparare da lui stesso sul come fare “casino” (che un po’di gioia non fa mai male) tutto quello studio non servirà a niente. Niente. Altrimenti cultura e studio diverrebbero questioni “classiste”, d’elitè (di cui anche Pasolini parlava) senza alcun potere di miglioramento per gli altri, se non per alcuni. E dunque l’educazione dov’è? A che servirebbe, diciamo, parlare di “uguaglianza” quando si spiega la Rivoluzione francese? E non si può insegnare “Umanità” senza partire da questa allo stesso tempo: raggiungendo magari la consapevolezza che in molti si è in una situazione instabile e precaria; dove magari, a molti, non interesserebbe neanche la questione se già “sistemati”. Quindi forza, maturità, e umanità. Ne vale per il futuro di molti. Per dirla alla Sorrentino:”Il successo sta sul cesso”. Ed io? “Io, speriamo che me la cavo”. (Anche chi scrive è insegnante, presunto tale).

Vincenzo Perfetti

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