Oggi la rituale gara di retorica istituzionale su via D’Amelio. Nessuna risposta su mancata tutela del giudice ucciso, depistaggi di Scarantino e trattativa Stato-mafia

Non è un anniversario come gli altri, questo 19 luglio. La vicenda Crocetta-Tutino. Le parole di Manfredi Borsellino ieri al Palazzo di giustizia. Il simmetrico isolamento di Lucia, la figlia del giudice assassinato. Troppe opacità riportano ai veleni di Palermo. E la memoria della strage di via D’Amelio sfugge alla retorica, ricordando che la verità manca da 23 anni. Un processo giunto a sentenza definitiva tutto da rifare. I depistaggi del caso-Scarantino. L’ombra della trattativa Stato-mafia, il processo osteggiato, attaccato da più parti. Una valanga limacciosa travolge la richiesta di giustizia dei familiari delle vittime, e di quanti si battono per fare luce su una delle pagine più oscure della storia repubblicana. Per decenza, ometteremo la rituale gara di dichiarazioni di politici e istituzioni. Un’orgia di retorica che celebra da morto un servitore dello Stato colpito alle spalle, mentre si opponeva a patti inconfessabili, e indagava sull’omicidio dell’amico Giovanni Falcone. Una cacofonia in cerca di bollini di verginità, a cui fa da abituale contraltare il contegno dei familiari. Restano inevase le domande cruciali. In un’intervista alla Rai, il magistrato Antonino Caponnetto precisò che giovedì 16 luglio, tre giorni prima dell’attentato, Paolo Borsellino ebbe la certezza indubitabile che era arrivato il tritolo per lui. Perché non furono prese misure straordinarie a sua tutela, come quella perfino banale di vietare la sosta sotto casa della madre, luogo da lui frequentato abitualmente? E’ da questi interrogativi che bisogna ancora partire. Rifiutando l’ipocrisia di uno Stato che non ammette di farsi processare.

Gianmaria Roberti

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