Poggioreale, la cella dei pestaggi rivive a teatro – Video

Tratto da una storia vera, “Sottozero” è atto di denuncia, ma anche presa di coscienza collettiva sui maltrattamenti nelle carceri italiane. La dedica alle “vittime degli abusi e ai tanti uomini della Penitenziaria che fanno il loro dovere con onestà”

 

NAPOLI – Tre spazi sulla scena. A destra l’ufficio del poliziotto penitenziario che diventa anche sala colloqui, a sinistra la cella, al centro la gabbia. Nulla si muove, ma tutto è in movimento. I tempi rallentati di fuori attraversano quelli vorticosi di dentro. Come succede quando sei in carcere. Non importa se detenuto o guardia. Dall’amplesso iniziale del protagonista prima dell’arresto con cui si apre il sipario, alle molestie durante le perquisizioni appena varcata la soglia di Poggioreale, alle conversazioni con il compagno di cella mentre ci si divide spazio e nostalgie, allo scatto d’ira quando scopre le ritorsioni sulla moglie, al senso d’impotenza di fronte alla morte del padre di cui viene a conoscenza soltanto dopo il funerale, al Natale che sembra venerdì santo, alle lettere scritte al figlio per elaborare il dolore, al tentativo di suicidio, alle lacrime mute. Quelle di Pietro Ioia, condannato a ventidue anni per spaccio internazionale di droga nel periodo della faida tra la Nuova camorra organizzata di Cutolo e la Nuova famiglia. Quando la guerra si combatteva in strada, ma anche nei padiglioni dell’istituto di pena dove si verificarono gli abusi di potere raccontati da Ioia. Umiliazioni, sevizie, pestaggi inflitti da un gruppo di agenti aguzzini nella gabbia, la famigerata ‘cella zero’.
“Sottozero – Morte e rinascita di un uomo in gabbia”, rappresentato lo scorso fine settimana al teatro Bolivar, disegna con un’inafferrabile capacità di introspezione il quadro di una sopravvivenza quotidiana. Le tinte forti della crudeltà dei fatti si intersecano con i chiaroscuri delle prospettive. Perché Ioia sul palcoscenico inverte le parti. In una sorta di freudiano smascheramento affronta la sofferenza subìta, trasformandosi nel suo carnefice. Da vittima diventa il poliziotto Fraulella, soprannome affibbiatogli per il colore roseo delle gote, come la fragola. Paradossalmente la coesione drammatica della pièce è data proprio da questa coraggiosa sfida del protagonista della vicenda reale di vestire, invece, in scena, i panni del suo torturatore. Ioia diventa Fraulella, mentre l’attore Ivan Boragine interpreta il giovane Ioia. E la ferita si fa una. Accade all’improvviso: lo spettatore si accorge di trovarsi nel pieno del dramma quando Fraulella, quando cioè la spavalda alterigia dell’insicuro che si fa violento per viltà, confessa di essere vittima di se stesso, di un sistema malato che lo vuole, pure lui rappresentante dello Stato, “uomo con fine pena mai”. Perché “Sottozero” è innanzitutto una storia di vite. Espressioni rabbiose, grida di aiuto, agiti senza vergogna e malinconie represse raccontano della precarietà di chi è ristretto in quattro mura abitando il limite. I nudi integrali dei due detenuti squarciano le quinte. È l’uomo nudo perché il carcere ti spoglia del superficiale e ti svela l’essenza. Ma è l’uomo nudo soprattutto perché denigrato, vessato, reificato, a cui viene tolta dignità. Semplici cambi di luce e di musica danno il ritmo alla tragedia, alleggerita soltanto dalla presenza accogliente ed ironica del compagno di cella (Diego Sommaripa) e della paziente moglie (Marina Billwiller) che attende il suo Ulisse prigioniero cucendo ad ogni strappo quel che resta della dolorosa tela. Sotto la mano ferma del regista Sandro Dionisio e dell’autore Antonio Mocciola i quattro interpreti danno una vibrante dimostrazione attorale, che trasforma testo e parola in carica azione, attraverso movimento e linguaggio scarnificati. Una prova non semplice quando si affronta il valore della prossimità, della tortura nascosta e non riconosciuta.
Tra incertezze e smarrimento, qui la solidità prende forma e unità dal patire, e si nutre della preghiera. Al dio imperfetto, esplorato con accanimento. In attesa di risposte che allignano in quel “mamma” ferocemente urlato a squarciagola da Sommaripa nella gabbia oppure in quell’appello al ministro a visitare la ‘cella zero’, l’inferno di Poggioreale. Ed è così che il monologo di Boragine-Ioia (vedi video), che uscendo dalla gabbia fa un’improvvisa incursione in sala, si muta in dialogo con il pubblico. Spezza la barriera tra palcoscenico e platea, tra galera e mondo esterno, in una sorta di invito, destinato a tutti, ad aprire gli occhi, a denunciare, ad illuminare la buia e omertosa realtà. “Ministro lo sai che qui c’è una cella che tu non sai, dove ci abboffano di mazzate, dove la gente muore e nessuno sa niente? Mini’ lo sai che ci negano i permessi, che i nostri figli si fanno grandi e non ce li fanno vedere, che le nostre mogli non ce le fanno toccare nemmeno mezz’ora al mese? E allora nuje che facimmo? Ce la pigliamo con i femminielli. Mini’ ma lo sai che mangiamo schifezze scadute, che i medici neppure ci guardano? Io sono un delinquente e devo pagare, è vero, ma io da qua o esco orizzontale o faccio una strage, perché tanto nun tengo chiù niente da perdere, perché tanto nessuno mi farà lavorare là fuori. Ministro io mi chiamo Pietro Ioia e sono un uomo”.
L’immagine di Pietro che esce dal carcere consegna lo spettatore al mondo contaminato del cambiamento che, però, non si chiude nel personale. La presa di coscienza collettiva indica che un processo importante, seppur faticoso, è in atto e non può restare sottovalutato solo perché non è politicamente rilevante né mediaticamente rumoroso. Resta nell’eco emozionale, a cercare significati al di là del dire, il senso di uno spettacolo dedicato non solo alle vittime dei pestaggi nelle carceri italiane, ma anche “ai servitori dello Stato che fanno il loro dovere con coerenza ed umiltà, e fortunatamente sono tanti” ci tiene a sottolineare Ioia, oggi presidente dell’associazione Ex Detenuti Organizzati Napoletani, a chiusura delle scene. Ioia, braccato da uno struggente desiderio di vita. Nonostante tutto. Glielo diceva la madre che lui era forte perché nato nel freddo inverno del ’56, anno in cui a Napoli nevicò. Ce lo dice lui stesso nella battuta finale dell’atto unico, quando finalmente libero riabbraccia la moglie e manifesta la sua volontà di cambiare vita. Questa volta “sottozero” perché il freddo l’ha temprato. “Io – dice – tengo la memoria della neve”.

Claudia Procentese

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