
Tra i giudici si sarebbe affermato il pensiero unico liberista e confindustriale e tanta insensibilità per i drammi e le devastazioni sociali.
Nell’occhio ciclone una parte consistente dei 95 giudici della sezione lavoro del Tribunale di Napoli e della Corte di Appello. Troppe cause di lavoro si concludono con la vittoria delle aziende e la sconfitta dei lavoratori. Orientamenti alquanto preoccupanti e imbarazzanti. Il pensiero liberista avrebbe preso il sopravvento nelle aule di giustizia? Orientamenti e decisioni che meriterebbero maggiore attenzione da parte del Ministero della Giustizia e del Consiglio Superiore della Magistratura. Sarebbe opportuno inviare gli ispettori per avviare serie verifiche e accertamenti.

Emerge un ingiustificabile incremento esponenziale dei rigetti delle domande rispetto agli accoglimenti a scopo meramente deflattivo. Un fenomeno che sembra inarrestabile. Il lavoratore di fatto è sempre più penalizzato, vittima di una quotidiana denegata giustizia, divenuta oramai insostenibile. Centinaia di licenziamenti o demansionamenti vengono confermati, avallate da sentenze discutibili. I testimoni aziendali diventano i principali “punti di riferimento” di alcune toghe della sezione lavoro del Tribunale partenopeo.

Eppure, il giudice del lavoro è una figura istituzionale che dovrebbe rappresentare un riferimento, una garanzia per la tutela dei lavoratori, i soggetti più deboli. Invece, non si contano il numero delle sentenze in favore degli imprenditori. Sentenze emanate in nome della cosiddetta crescita economica.

Aumentato in maniera consistente il numero dei lavoratori costretti a proporre il ricorso principale in Cassazione lamentando la erroneità delle sentenze di primo e secondo grado. Nel panorama giuridico non esistono analisi e indagini statistiche sulle sentenze della sezione lavoro del Tribunale e della Corte di Appello di Napoli che aiutino a comprendere in modo sistematico chi vi ricorra e con quali risultati. A quanto pare, le statistiche sarebbero secretate. Un fatto gravissimo. Una questione che dovrebbe essere seriamente valutata dal Ministero della Giustizia e dal Csm.

E non finisce qui. Ogni sentenza di rigetto condanna puntualmente I lavoratori al pagamento delle spese processuali. Con questo criterio si ha il sospetto che si voglia colpire economicamente chi perde per scoraggiare la proposizione dei ricorsi in Tribunale. In questa prospettiva, a essere maggiormente colpito, ovviamente, sarà il soggetto economicamente più debole. Se così fosse, avremmo la violazione dei principi costituzionali del giusto processo (articolo 111 della Costituzione) e dell’accesso alla giustizia (articolo 24 della Costituzione). Non si può non tener conto dello squilibrio della forza economica dei due contendenti in campo.
Non basta il flagello della precarizzazione dei rapporti di lavoro, le quotidiane morti bianche (proprio perché datori di lavoro senza scrupolo assumono in nero e sfruttano senza esitazione), a tutto questo si aggiunge anche la totale insensibilità di un magistrato al quale proprio per la delicatezza della materia trattata viene chiesto qualcosa di più e che dà sempre di meno(la percentuale dei rigetti dei ricorsi di lavoro, dei decreti ingiuntivi, è ormai elevatissima).

Sarebbe oltremodo miope restringere lo sguardo sul pianeta giustizia del lavoro soffermandosi esclusivamente sui problemi di carenza di organico, logistica, attrezzature ed altre carenze tutte peraltro emerse anche nell’attuale situazione pandemica. Ma non fornirebbe un contributo esaustivo limitare tali problematiche che pure sono tangibili – e che non trovano apparente giustificazione alcuna – senza affrontare il più vasto problema di come viene amministrata la giustizia del lavoro.
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La genesi del problema è complessa. Una cosa però è certa, determinante ed inconfutabile: l’eccessiva burocratizzazione del ruolo del giudice del lavoro che appare decontestaualizzato e fuori dai fenomeni sociali nei quali si agitano le problematiche dei lavoratori su cui quotidianamente sono chiamati a decidere. L’incalzare dell’erroneo convincimento che il pianeta giustizia debba funzionare come un’azienda fa sì che, a tal fine, si debbano ridurre i tempi di realizzazione del prodotto finito emettendo il maggior numero di sentenze, purché siano.

Purtroppo, quasi uniformato a questo declino dei diritti sociali, si registra un calo di tensione nelle decisioni della magistratura del lavoro che pure sarebbe destinata a svolgere un ruolo primario e ad avere un’incidenza notevole nella realizzazione dei diritti fondamentali della persona e non solo i diritti delle aziende molto spesso, anzi troppo spesso, avvantaggiate nei processi. Andrebbe fatta chiarezza su quello che è diventato un vero e proprio fenomeno: il rigetto delle domande dei lavoratori o la legittimazione di testimoni aziendali poco credibili.

“Purtroppo per alcuni giudici è più semplice rigettare che accogliere un ricorso – commenta l’avvocato Elio Sica – E i rigetti nella stragrande maggioranza dei casi si attengono alla forma e non al merito. Forse per pigrizia non si impegnano ad effettuare ricerche giurisprudenziali articolate. Mancanza di sensibilità“.
Dunque, nelle aule del Palazzo di Giustizia del Centro Direzionale di Napoli si sarebbe affermato il pensiero unico liberista e confindustriale e tanta insensibilità per i drammi e le devastazioni sociali. Nessuna meraviglia. Molti giudici percepiscono in media stipendi che superano i 5 mila euro netti mensili, conducono una vita molto agiata, frequentano ambienti composti da persone agiate, lontani anni luce dalla realtà sociale. Persone che non hanno mai provato sulla propria pelle gli effetti devastanti prodotti da un licenziamento, dalla precarietà, dalle vessazioni.
Oramai si fa sempre più strada una giustizia dal doppio binario: debole con i forti e forte con i deboli. Una magistratura del lavoro che ignora i diritti negati sui posti di lavoro. Una giustizia di classe.
Ciro Crescentini
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