Referendum costituzionale, lo storico Polichetti: perché votare NO

Riceviamo e pubblichiamo integralmente

Il referendum costituzionale sulla riduzione del numero di deputati e senatori, che avrà luogo tra il 20 e il 21 Settembre, impone una presa di posizione priva di ambiguità. In questo articolo, spiegherò le ragioni per cui credo sia necessario votare No al taglio dei parlamentari.

Occorre votare no, prima di tutto, perché le promesse millantate da questa presunta grande riforma (il taglio dei costi della politica e la fine della casta) sono false.

Per quanto riguarda il risparmio, se dovesse vincere il sì, infatti, si arriverebbe ad un risparmio annuo totale di 53 milioni per la Camera e di 29 milioni per il Senato. Per quanto alcuni possano restare impressionati da tali cifre, esse sono una goccia nel mare del bilancio statale annuale, peraltro oberato da un debito pubblico che questo esecutivo, con la Lega prima e con il PD ora, ha contribuito ad aggravare sacrificando servizi pubblici come scuola e sanità. D’altro canto, secondo alcune stime, una tassazione patrimoniale, improntata al criterio di redistribuzione della ricchezza previsto dalla nostra Costituzione (Art. 53), potrebbe garantire un gettito annuo di 4 miliardi di euro (https://sbilanciamoci.info/tra-le-ricette-anti-crisi-serve-una-patrimoniale/).

In realtà, non si può pretendere che grillini e piddini inquadrino in senso progressivo tali questioni poiché hanno escluso apriori (e come fattore imprescindibile) la patrimoniale, nei giorni in cui si facevano gli accordi per formare l’attuale governo (https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/08/30/governo-la-diretta-di-maio-avanti-con-nostri-punti-altrimenti-voto-zingaretti-basta-ultimatum-conte-vede-i-due-partiti-e-convoca-nuovo-vertice-palazzo-chigi-ce-percorso-per-progra/5418555/). Ma anche senza andare troppo lontano, si può sostenere che il risparmio derivante dal taglio dei parlamentari costerebbe a tutti noi molto di più in termini di rappresentatività del Parlamento. Con l’approvazione referendaria di tale riforma, infatti, passeremmo ad avere un parlamentare per ogni 151 mila cittadini (oggi ne abbiamo uno per ogni 96 mila) mentre avremmo un senatore per ogni 302 mila cittadini (attualmente ve n’è uno per ogni 188 mila).

È mai possibile garantire un’adeguata rappresentanza politica con numeri come 1×151 mila o 1×302 mila? Con questi numeri la casta diventerà soltanto più ristretta, preconfezionata dalle segreterie dei partiti e, di conseguenza, ancora più dipendente rispetto al governo, al potere esecutivo che andrà a sostenere (nel caso della maggioranza). E sarà ancora più difficile stabilire un vero contatto tra i parlamentari e le reali esigenze dei cittadini che dovrebbero rappresentare legiferando. Secondo la nostra Costituzione, infatti, è il Parlamento che legifera mentre al governo spetta l’esecuzione di ciò che il Parlamento stesso dispone; non può e non deve essere il contrario (ciò che spesso, invece, avviene) e cioè che il governo promulga leggi o decreti che il Parlamento approva pena il decadimento e nuove elezioni. Il lavoro di un parlamentare è, sulla carta, molto impegnativo e implicherebbe il pagamento di uno staff (non dei portaborse) in grado di dare assistenza nelle inchieste o nello studio delle leggi così come nella delineazione di nuove proposte e disegni di legge, per fare soltanto qualche esempio. In altre parole, lo stipendio del parlamentare, se ben speso e non devoluto tutto ad uso personale, può anche dare buoni frutti.

Al contrario, questa riforma si basa su di un apparato di parole d’ordine demagogiche e reazionarie che, con buona probabilità, mira a soffocare la democrazia parlamentare in favore della costruzione di una repubblica presidenziale su base maggioritaria e populista. Da questo punto di vista, non si possono ignorare le responsabilità di tutti i partiti che quasi un anno fa, in Parlamento, hanno votato, ben compatti, per il sì al taglio dei parlamentari e che, ora, hanno tra i loro iscritti tanti che fanno campagna per il no o, addirittura, hanno provato a mercanteggiare con i 5S per schierarsi per il sì nei giorni scorsi come, per esempio, il PD nelle ultime settimane. Pare abbastanza chiaro, infatti, che questi gestori di poltrone e potere politico (i piddini) non vogliano indebolire il governo di cui fanno parte con un risultato negativo al referendum.

C’è un filo rosso che collega questo referendum alla fine della Prima Repubblica quando, utilizzando strumentalmente l’operazione “Mani pulite”, le “nuove” forze politiche imposero, tramite referendum (1993), un sistema elettorale maggioritario che, con lo sbarramento ai danni dei partiti più piccoli, ha mortificato i criteri di rappresentanza garantiti, fino a quel momento, dal sistema proporzionale. A ciò va aggiunta l’assurdità delle diverse leggi elettorali succedutesi nell’ultimo ventennio, su cui per motivi di brevità non è possibile soffermarsi. Il tutto mentre abbiamo assistito al crescente svilimento di concetti nobili quali “partito” e “politica” tramite lo stratagemma della creazione di nuovi movimenti politici e l’utilizzo del processo mediatico ai corrotti di turno, agli appartenenti alla cosiddetta casta (come se poi ce ne fosse soltanto una). La verità è che le ruberie sono continuate indisturbate anche nella Seconda Repubblica (anzi, forse di più e peggio di prima) mentre, nel frattempo, le scuole di partito e la formazione di nuovi quadri dirigenti sono venute meno. Di conseguenza, il sistema di reclutamento all’interno dei partiti e dei movimenti si è fatto sempre più strumentale e opaco.

Ma la questione cela un aspetto più profondo: non esiste (e non può esistere) una formula, una ricetta perfetta della rappresentanza politica. Questo perché le costituzioni e gli ordinamenti degli Stati non rispondono a criteri logici astratti, ma, al contrario, sono formazioni storiche. Uno degli errori più classici che molti commentatori commettono in queste occasioni è quello di esaminare i sistemi elettorali e politici come se derivassero da scienze sperimentali esatte. E così, molti iniziano a cimentarsi in analisi comparative destinate al fallimento: andare a vedere come funziona il modello tedesco o quello francese, per esempio, non aiuta a capire e a risolvere nulla perché i modelli stranieri derivano, appunto, da storie politiche diverse. Quello che, per così dire, funziona in altri Paesi, assai difficilmente può essere applicato alla lettera nel nostro.

Non siamo di fronte ad una scienza matematica esatta. La politica è fatta della carne e del sangue di tutti noi, di azioni di grande efficacia o, alle volte, di ampio respiro così come di tanti errori. Per questo motivo, per stabilire nuovi criteri di rappresentanza politica, sarebbe necessario un tipo di giudizio basato su di un’autentica immersione nella storia e nella cultura politica e sociale del Paese. Su questo piano, siamo lontani anni luce da chi ha pensato, nel suo piccolo, di risolvere il problema della democrazia diretta con l’assai discutibile piattaforma Rousseau.

E questo è il vero motivo per cui non esiste nemmeno il sistema di rappresentanza parlamentare perfetto, ma può esserci soltanto il modo di garantire, con tutti i suoi difetti, le sue distorsioni e i suoi malfunzionamenti, il sistema maggiormente democratico possibile basato su di un equilibrato bilanciamento tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Di certo, non si potrà ottenere questo decurtando il numero di parlamentari né, tramite questa via, si potrà eliminare la corruzione o significativamente i costi della politica.

La democrazia parlamentare, infatti, per poter vivere in buona salute e per il fatto stesso che richiede la rappresentanza politica di un gran numero di cittadini, necessita del diritto universale all’istruzione, della più ampia diffusione della cultura e di una costante applicazione di un criterio redistributivo delle ricchezze per aspirare a fornire concretamente a tutti la possibilità di dare il proprio contributo nelle più alte funzioni, e nei ruoli di maggiore responsabilità. In altre parole, la democrazia non ha soltanto bisogno di uno Stato democratico, ma, in senso più ampio, necessita di essere animata – con il contributo di tutte le forze politiche e sociali – da una concezione democratica della vita, quale la si ritrova nei principi della nostra Costituzione.

L’attuale piano politico del governo, invece, non è focalizzato su tali obiettivi (di materiale di discussione sulla crisi scolastica ed economica, sulla disoccupazione e sulle diseguaglianze crescenti se ne trova ampia copia). Al contrario, l’elemento concretamente propositivo dell’azione di governo è tutto rivolto alla mortificazione degli ordinamenti parlamentari e dell’equilibrio tra i diversi poteri. Per questo motivo, ci troviamo di fronte ad un attacco demagogico alla nostra democrazia. Ed è per questo motivo fondamentale che sarà necessario votare no a questa riforma sciagurata. Essa, infatti, non si basa sull’idea di agevolare l’espressione della libera volontà dei cittadini, ma sull’introduzione di un sistema che rispecchia la distorta idea di rappresentatività politica di chi attualmente siede al governo.

Del resto, la sostanza della questione non è cambiata poi molto rispetto ai tempi di Aristotele: con diverse gradazioni, si tratta sempre di scegliere tra il governo dei pochi (i ricchi, i forti) e quello dei molti (tutti gli uomini liberi), tra l’oligarchia e la democrazia tenendo presente che, “per difficile che sia scoprire la verità intorno all’uguaglianza e la giustizia, è però sempre più facile riuscire in questa impresa che convincere quelli che possono commettere soprusi a praticarle: infatti sono sempre i deboli a cercare la giustizia e l’uguaglianza, mentre i forti non se ne curano affatto” (Aristotele, Politica, libro VI, cap. III).

Antonio Polichetti

Storico e saggista

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