Quella delusione chiamata Fernández

  

Riceviamo e pubblichiamo integralmente

Aveva promesso di tirare fuori il Paese dall’ennesima crisi economica ereditata dalla destra, ed  invece, dopo poco più di sei mesi dal suo insediamento, molti argentini già si sentono ostaggio dell’incapacità politica del governo di Fernández e della sua paranoia da covid-19.   

Se dovessi scegliere il titolo di una canzone per descrivere l’attuale situazione politica argentina, non ho dubbio alcuno che opterei per C’eravamo tanto sbagliati della band “Lo Stato Sociale”. Da sei mesi a questa parte, infatti, se c’è una cosa che ho imparato sul presidente Fernández è che di fronte ai problemi del Paese non risponde quasi mai con soluzioni, ma quasi sempre accampando scuse. Proprio come tutti quei soggetti a cui fa riferimento una delle prime strofe della canzone citata in precedenza, anche l’Alberto argentino ha sempre la scusa pronta per giustificare l’incapacità sua e del suo governo di risolvere la crisi economica lasciatagli in eredità dal neo-liberista  Mauricio Macri, che, in quattro anni di presidenza, è stato capace di accumulare con i creditori privati e con l’FMI oltre cinquanta miliardi di euro di debito. In campagna elettorale, Fernández aveva promesso che, se eletto, avrebbe obbligato i creditori a rinegoziare le clausole sul debito, in particolare quelle relative ai tassi d’interesse, e che, ad ogni modo, un suo eventuale governo avrebbe fatto di tutto per evitare che la crisi eredità dal macrismo la pagassero le classi più deboli del paese. Il suo curriculum sembrava promette bene: il noto professore di diritto penale della  facoltà di Diritto della UBA era già stato capo di gabinetto del governo di Nestor Kirchner e per sette mesi del primo governo di Cristina Fernández, e gode perciò di buona fama. Inoltre, il suo principale avversario, il presidente uscente Mauricio Macri, lasciava una situazione economica veramente disastrata. Insomma, la vittoria per “el Fronte de Todos”, la coalizione di centro-sinistra che lo appoggiava, era a portata di mano. E così è stato. Il 27 ottobre del 2019, Alberto si è aggiudicato le elezioni presidenziali al primo turno con quasi il 50% dei consensi.

  Ma una volta al potere, il suo governo si è reso conto che rimettere in carreggiata l’Argentina era più complicato di quanto pensasse: la produzione industriale infatti è quasi ferma al palo a causa del calo dei consumi. Inoltre, come detto, sul paese incombe, come una nuvola nera, la questione del debito. Una volta assunta la presidenza, Fernández ha potuto costatare personalmente la situazione disastrosa delle finanze argentine: il debito accumulato negli ultimi due anni dell’esecutivo precedente è spaventoso e, cosa più grave, incombono le scadenze dei creditori.

  A fine gennaio di quest’anno, allora, quando il mondo ancora non era alle prese con il covid-19, il neo presidente ha affidato al suo giovane ministro dell’economia, Martín Guzmán, il compito di intraprendere i colloqui con l’FMI e i creditori privati, di cui una parte importante è costituita da impresari e finanzieri locali, per convincerli ad accettare le proposte argentine circa una rinegoziazione del debito e dei suoi tassi d’interesse. Il tutto prima del 22 aprile 2020, data di scadenza della prossima trance di pagamento. La proposta del governo argentino prevede essenzialmente una sospensione dei pagamenti per almeno tre anni e l’imposizione di un tasso d’interesse non superiore al 5% per cento. Si tratterebbe di condizioni irrinunciabili, secondo l’esecutivo, e convenienti per gli stessi creditori, perché consentirebbero al paese sudamericano di riavviare la sua economia e, di conseguenza, mantenere i propri impegni.

   Per parte loro, i creditori sono sembrati sin da subito aperti al dialogo: questi, infatti, conoscono bene la disastrosa situazione economica argentina e sanno bene che forzare la mano, in questo momento, sarebbe controproducente perché: spingere il paese sudamericano al default implicherebbe la perdita sicura non solo dei guadagni generati dagli interessi, ma dei loro stessi prestiti. Ma né l’FMI né, tanto meno, i gruppi finanziari privati sono associazioni di mutuo soccorso. Per cui, fin dal primo incontro con il ministro Guzmán hanno preteso garanzie certe per i loro investimenti, che, tradotte nel linguaggio neoliberista proprio delle finanza mondiale, consisterebbero nella solita ricetta, ovvero:  tagli alla spesa pubblica, aumento dell’età pensionistica, tagli ai salari e riforma del  lavoro.

  Dopo questa e altre riunioni interlocutorie avutesi nei primi due mesi dell’anno, nelle quali i creditori hanno ribadito questa posizione, il governo progressista di Alberto, che in campagna elettorale si era proposto come il garante delle classi più deboli, ha sempre dichiarato che: a queste condizioni, meglio il fallimento, perché mai si sarebbe fatto carico di scelte politiche che avrebbero fatto pagare, ancora una volta, lo scotto della crisi a lavoratori e pensionati.

   Ma al di là delle dichiarazioni di facciata, impregnate dalla solita retorica peronista, la sensazione è che, alla fine, il governo abbia accettato buona parte delle condizioni imposte dai creditori. Questa ipotesi sembra essere suffragata dalla cronaca politica argentina degli ultimi tre mesi.

  Il 18 marzo, a seguito delle notizie allarmanti provenienti dall’Europa, sopratutto da Italia e Spagna, relativa alla diffusione del covid-19, il presidente Fernández annuncia la quarantena obbligatoria in tutto il territorio nazionale fino al 2 di aprile. Si tratta del prima misura restrittiva attuata dal governo argentino per frenare l’avanzata del virus, poi, ripetuta ciclicamente ogni 15 giorni. Oltre a questa estrema misura di tutela della salute pubblica, suggeritagli dal comitato scientifico con cui tutt’oggi collabora, quel ormai famoso giovedì sera il governo ha accennato anche al pacchetto di aiuti statali destinati a quelle fasce di popolazioni che più avrebbero sofferto l’acutizzarsi della crisi economica che sarebbe seguita alla quarantena. Il 23 marzo, infatti, il ministro dell’economia Guzmán, quello dello sviluppo sociale Daniel Arroyo e quello del lavoro Claudio Moroni annunciano un bonus di 10.000 pesos per tutti i lavoratori autonomi e la promessa per tutti i lavoratori dipendenti, in particolare per quelli privati, che non solo avrebbero conservato il loro posto di lavoro, ma anche che no avrebbero subito nessun taglio ai salari.

   Peccato che la UIA, la confindustria argentina, non fosse della stessa opinione. Il 27 marzo il proprietario della principale impresa del paese, la “Techint Ingeniería y Construcción”, l’italo-argentino Paolo Rocca annuncia per mezzo stampa il licenziamento di 1.450 lavoratori del comparto delle costruzioni private, giustificandolo con la paralisi delle attività non essenziali seguita al decreto governativo che imponeva la quarantena obbligatoria.

  Inizia così un finto braccio di ferro tra l’Unione degli Industriali da un lato e il governo e il principale sindacato argentino, la peronista CGT, dall’altro. In risposta alla decisione della Techint e alle minacce di altri impresari di seguire lo stesso esempio, il 1º aprile l’Alberto nazionale annuncia, con tanto di conferenza stampa, la sua firma ad un decreto che vieta per almeno 60 giorni a qualsiasi impresa di licenziare un lavoratore per una diminuzione della produzione dovuta all’emergenza sanitaria o per altra ingiusta causa. Ma andando a sfogliare le sei pagine del provvedimento presidenziale ci si rende conto che quello presentato come una risposta forte contro la prepotenza e arroganza del capitalismo argentino, altro non è che un bluff, una farsa, un “pesce d’aprile” insomma. Il “Decreto de Necesidad y Urgencia” del 1º aprile prevede infatti che attraverso la Anses, l’agenzia di previdenza sociale, lo stato si faccia carico dell’intero salario dei lavoratori delle aziende che non abbiano più di 25 dipendenti, del 75% per quelle fino a 60 dipendenti, e del 50% per quelle con oltre 60 dipendenti.

   Eppure, nonostante la generosità mostratale da Alberto e dal suo gabinetto, dopo poche settimane dalla pubblicazione del DNU, l’UIA ha nuovamente avanzato pretese verso il governo. Resasi conto della sua effettiva debolezza ha infatti pensato bene di chiedergli un’ulteriore regalo, vale a dire: la sospensione dei lavoratori in eccesso e la riduzione del loro salario. Ed anche in questo caso Fernández e i suoi ministri hanno pensato bene di accontentarla. Il 29 aprile, infatti, dopo solo due giorni di confronto, il governo peronista, attraverso la risoluzione 397/2020, ha ufficializzato l’accordo tra UIA e CGT che prevede, appunto, la sospensione massiva dei lavoratori non essenziali e un taglio del loro salario del 25%. Naturalmente, la stampa e i media filo-governativi (in particolare: Pagina 12, C5N e AM750) l’hanno presentata come un successo di Alberto e della sua squadra di governo, ma per rendersi conto della grave ingiustizia perpetrata ai danni delle classi lavoratrici basta guardare i numeri: solo il giorno dopo la pubblicazione del documento che sanciva l’accordo, sono stati sospesi un 1.200.000 lavoratori.

   Ovviamente, nel maggioranza c’è stato qualcuno che si è reso conto che le concessioni fatti agli industriali dal cosiddetto “governo del popolo”  non potevano essere celate a lungo sotto la veste del falso trionfo proletario: molto presto, infatti, i lavoratori si sarebbero accorti, stipendio alla mano, che ancora una volta erano loro a pagare il prezzo più alto dell’ennesima crisi. Per cui, il 15 aprile, il deputato del “Frente de Todos”, Máximo Kirchner, sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle parole del pontefice e di molti economisti nazionali ed internazionali a favore di una più equa distribuzione della ricchezza mondiale, ha presentato al presidente Fernández e al ministro Guzmán la proposta di un disegno di legge per un’imposta sui grandi patrimoni. Ma anche in questo caso, si è trattato dell’ennesima commedia: ad oggi, infatti, il disegno di legge non è ancora stato presentato in Congresso.

   Nel frattempo, però, le scadenze dei creditori incombono, nonostante la concessione di una proroga fino gli inizi di giugno, ed è prevedibile che la crisi economica del Paese, con il prolungarsi della quarantena totale nella città di Buenos Aires (il 7 giugno saranno 83 i giorni di isolamento obbligatorio, ed è prevista una ennesima proroga), principale centro finanziario del paese, si acutizzi ancora di più, con il rischio serio di rivivere nuovamente i tragici giorni del default del 2001. Ovviamente, mi auguro che ciò non avvenga e che il presidente Fernández mi smentisca a breve con iniziative veramente popolari. Ma se è vero, come diceva qualcuno, che “il buongiorno si vede dal mattino”,  è evidente che questi primi sei mesi del nuovo governo argentino non lasciano prevedere nulla di buono per il futuro politico ed economico del paese, sopratutto per le classi più deboli. 

Antonio Sparano

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