La morte della giornalista Shireen Abu Akleh:  martire dell’arroganza israelita e della complicità di molti governi del mondo

Riceviamo e pubblichiamo integralmente

Shireen Abu Akleh, giornalista palestinese con passaporto statunitense, è stata uccisa a Jenin da un cecchino della cosiddetta FDI, la forza di difesa israeliana. L’inviata di Al Jazeera si trovava in Cisgiordania per seguire un’incursione dell’esercito sionista nel campo profughi. Stando a quanto riportato dalla collega Shatha Hanaysha, anche lei presente durante l’accaduto, in quel momento “…non c’erano scontri o colpi sparati da palestinesi”, i soldati israeliani erano di fronte a loro e dietro c’era un muro.

A lei, come agli altri giornalisti presenti sul posto, i soldati israeliani hanno  impedito di soccorrerla. Insomma, si è trattata di un’esecuzione in piena regola: Shireen è stata assassinata perché cercava di documentare una delle tante “operazione antiterrorismo” israelita di cui era stata testimone e cronista impeccabile, ovvero, l’ennesimo atto di arroganza delle FDI nei confronti dei palestinesi. Questa donna da tempo era diventato un problema serio per le autorità israeliane: erano infatti venticinque anni che raccontava l’illegittima occupazione sionista in Cisgiordania e la lotta dei palestinesi per la loro libertà.

  Ma Shireen era mal vista anche dall’establishment del suo paese d’adozione, gli Stati Uniti (ne aveva la cittadinanza) e dagli altri alleati strategici d’Israele, Russia compresa. Nei suoi articoli e servizi aveva più volte rivelato le prove della loro complicità nelle nefandezze israeliane in Palestina. È stata lei, in un recente lavoro, ad aver portato alla luce il contemporaneo coinvolgimento di Jared Kushner, facoltoso ebreo statunitense noto alla cronaca per essere genero e consigliere dell’ex presidente Trump, Donald Blinken, l’ex ambasciatore d’Ungheria, potente banchiere ebreo e padre dell’attuale segretario di stato nordamericano Antony Blinken, e Roman Abramovic, l’impresario russo-israelita, ex proprietario del Chelsea e amico intimo di Putin, nel saccheggio sionista degli insediamenti palestinesi a Gerusalemme Est. Questi tre magnati, apparentemente antagonisti sul piano politico, sono infatti comproprietari della impresa immobiliare che, in barba al diritto internazionale e agli accordi di pace, si occupa della demolizione delle case usurpate agli arabi e della costruzione di colonie israeliane tanto a Gaza come in Cisgiordania.

  Eppure, questa tragedia indigna ma non sorprende: la lista di coloro che solo per avere raccontato le atrocità subite dai palestinesi o cercato di assisterli ed aiutarli in qualche modo hanno pagato con la vita è abbastanza lunga. Molti sono sconosciuti all’opinione pubblica del nostro Paese, dato che i media generalisti, come la classe politica italiana, sono da sempre favorevoli all’occupazione israeliana e tendono a nascondere qualsiasi barbarie compiuta dal suo esercito.

   Volerli ricordare tutte richiederebbe fiumi d’inchiostro e lacrime, perché mai può essere accettata passivamente l’arroganza criminale del potere. In questo occasione mi limiterò solo alle vittime più recenti, perché deve essere chiaro che nonostante la sua quasi totale occupazione, in Palestina la violenza israeliana non ha mai accennato a diminuire, anzi, negli ultimi due anni di “pandemia” si è ampliata colpendo duramente anche l’opposizione interna ostile alle restrizioni liberticide e all’obbligo vaccinale imposto dal suo governo; a riprova che quella sionista non è mai stata e mai sarà una democrazia, ma solo il primo esperimento di dittatura tecnocratica (gli altri due sono la Cina e l’Unione Europea) messo in pratica dall’ élite mondiale in vista della sua realizzazione su scala globale, e per chi ne è a capo chiunque abbia il coraggio di denunciare la sua natura malefica all’opinione pubblica o sfidarla è visto come il più pericoloso dei nemici e per questo merita l’annichilamento.

   Nel novembre 2002, sempre a Jenin, fu il giornalista irlandese Ian John Hook, all’epoca  a capo dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Assistenza e la Ricostruzione a favore dei rifugiati di Palestina, ad essere freddato da un cecchino sionista. Anche allora i media israeliani cercarono di giustificare l’assassinio sostenendo che l’esecutore aveva scambiato il cellulare del vittima per un’arma. Ma questa versione apparve fin da subito poco attendibile: il cecchino aveva usato un fucile di precisione dotato di mirino telescopico, inoltre, aveva sparato da distanza assai ravvicinata, non oltre i venti metri, per cui, era impossibile che non avesse notato che si trattava di un telefono e non di una granata. Ma non è tutto. All’ambulanza delle Croce Rossa, chiamata dai suoi collaboratori per soccorrerlo, i soldati israeliani impedirono il passaggio attraverso la zona da essi controllata ritardando notevolmente l’evacuazione di Hook. Quel ritardo gli fu fatale. Il funzionario delle Nazione Unite arrivò al pronto soccorso già in fin di vita: morì nell’ambulanza mentre l’autista cercava un percorso alternativo per portarlo all’ospedale. Anche la sua morte, come quella di Shireen, non fu casuale. Il campo per rifugiati da lui diretto era infatti mal visto dalle autorità sioniste, come testimoniato da un suo amico e collaboratore, il dottor Peter Hansen, il quale, davanti al tribunale che si occupava del caso affermò che in quattro anni l’esercito israeliano aveva sparato ad almeno tredici lavoratori del progetto UNRWA in circostanze molto simili a quelle in cui era stato ucciso Hook.

   L’anno successivo a cadere vittima dell’arroganza e violenza sionista fu la venticinquenne Rachel Corrie, membro dell’ISM (International Solidarity Movement), un movimento pro palestinese. Il 16 marzo del 2003, ovvero nell’apogeo della Seconda Intifada, questa giovane attivista fu letteralmente schiacciata da una ruspa corazzata dell’esercito israeliano mentre tentava di impedire la demolizione di un’abitazione palestinese a Rafah, nella Striscia di Gaza. I vertici militari sionisti avviarono un’ “investigazione” per chiarire la dinamica dei fatti che si concluse con un verdetto di innocenza nei confronti del conduttore della ruspa che, a loro dire, non l’avrebbe vista, e la classificazione dell’accaduto come “incidente”.

  Ma di fronte al giudice della corte di Haifa, che si occupava del caso, un amico della vittima, Richard Purssell, dichiarò che anche Rachel, quel giorno, come tutti gli attivisti, aveva seguito il protocollo imposto dalla forza d’occupazione: aveva indossato il suo giubbotto fluorescente ed era salita in cima ad un mucchio di pietre ponendosi così al di sopra del livello della lama del bulldozer per farsi vedere chiaramente dall’operatore della macchina; quindi, era impossibile che quello non l’avesse notata. Nonostante ciò, il conduttore aveva continuato ad avanzare ignorando le urla della ragazza e quelle degli altri attivisti che erano nelle vicinanze e che, con i loro megafoni, cercavano di avvisarlo della sua presenza, e quando questi l’avevano raggiunta, dopo il passaggio della ruspa, era già morta. La versione di Purssell fu confermata da una lunga lista di testimoni, composta da avvocati, medici e delegati stranieri, da palestinesi e perfino da un cittadino israeliano, i quali aggiunsero che anche quella operazione di demolizione, come la quasi totalità, era stata accompagnata da spari di cecchini israeliani. Le prove e le tante testimonianze, tuttavia, non ottennero giustizia: nella sua sentenza di assoluzione a favore del conduttore della ruspa il giudice Oded Gershon dichiarò che la morte di Rachel fu «il risultato di un incidente che lei stessa aveva attirato su di sé».

   Due mesi dopo, fu la volta di James Henry Dominic Miller, documentarista gallese vincitore di ben 5 premi Emi. Nel maggio del 2003 Miller si trovava in Terra Santa per girare un documentario sulle condizioni disumane in cui erano costretti a vivere i palestinesi reclusi nella Striscia di Gaza, dove Israele ancora oggi ostacola e addirittura impedisce l’entrata di medicinali e generi di prima necessità. Il documentario, che fatalmente si chiama “Morte in Gaza”(Death in Gaza) ed è stato trasmesso nel 2004 dalla catena statunitense HBO, mostra il regista durante il suo ultimo giorno di vita. Dalle immagini si vede Miller mentre esce dalla casa di una famiglia palestinese situata nel campo di Rafah. È quasi sera, il gallese impugna una bandiera bianca della pace ed è disarmato. Cammina scortato da due veicoli della FDI con a bordo nove uomini del Battaglione del Deserto. Dopo solo venti metri si avverte lo sparo di un fucile, a cui seguono tredici secondi di tetro silenzio, interrotto a sua volta dal grido di una sua collaboratrice «Siamo giornalisti britannici!». Quindi, l’eco di un secondo sparo, quello fatale: il proiettile attraversa il collo di Miller lasciandolo senza vita.

   Il processo relativo alla sua morte, svoltosi in un tribunale londinese, ebbe inizio solo nell’aprile del 2006, e con non poche difficoltà: furono infatti costanti i tentativi di depistaggio da parte del governo israeliano, del suo apparato diplomatico e della lobby sionista inglese. Di fronte ai giudici, i vertici del FDI dichiararono che Miller era stato vittima del fuoco incrociato durante uno scontro tra milizie palestinesi e soldati israeliani. Ma il video dell’esecuzione, recuperato dai colleghi del regista, fece crollare il loro castello di menzogne. Le immagini dimostravano che al momento dell’esecuzione non vi era stato nessun scontro a fuoco: l’unico sparo che si udiva era quello che aveva ammazzato il gallese. Gli esperti della polizia londinese confermarono che il proiettile che aveva causato la morte del regista coincideva con quelli dati in dotazione alle forze speciali della FDI, mentre l’arma da cui era partito apparteneva al tenente israeliano Heib. Uno suo subordinato, chiamato a testimoniare durante il processo, dichiarò che non c’era alcuna possibilità che si fosse trattato di un incidente: il tenente aveva una visuale ottima, un tiro perfetto. Le sue conclusioni furono queste: «Non so che dirle, signor giudice: sembra un omicidio, sembra che volesse ammazzarlo». Tra i testimoni al processo c’era anche Daniel Edge, amico ed aiutante di produzione del gallese, il quale affermò che prima di lasciare Israele la polizia gli aveva fatto pressioni affinché dichiarasse che ad ammazzare il regista erano stati i palestinesi. Il 6 aprile del 2006 la giuria del tribunale dichiarò la morte di Miller un omicidio. Nel giugno del 2007 procuratore generale, Lord Goldsmith, inviò una richiesta formale al suo omologo israeliano affinché, entro sei settimane, avviasse un procedimento nei confronti del militare che aveva sparato a Miller. Le sue richieste furono ignorate dal governo sionista e il processo nei confronti del capitano Heid (nel frattempo, l’omicida era stato anche promosso) non fu mai avviato ed ancora oggi l’assassinio resta impunito.

    Nel 2014, almeno settantasette sono stati i giornalisti palestinesi feriti dalle forze di occupazione del regime israeliano durante la sua offensiva lampo di cinquantuno giorni nella Striscia di Gaza, trentadue sono stati gli arrestati e diciassette quelli direttamente annichiliti. In totale, quell’operazione di pulizia etnica si è portata via la vita di duemilacento palestinesi, inclusa quella del trentenne autista Hamid Shihab, che il 9 luglio, a bordo di un’auto dell’agenzia di stampa Media 24, è stato deliberatamente attaccato e ucciso da un aereo militare israeliano. Ma l’anno successivo, il 2015, è stato anche peggio per gli operatori dell’informazione: a partire dal gennaio di quell’anno qualsiasi giornalista che volesse mostrare le condizioni di vita della popolazione palestinese in Cisgiordania o a Gaza doveva prima ottenere un permesso speciale dal governo israeliano. Questa norma gli consentiva di limitare la presenza di emittenti stranieri in territorio palestinese e costringeva le poche presenti ad assumere cameraman locali, i quali, spesso, venivano arrestati senza ragione, interrogati e minacciati dalla polizia israeliana, che, in quanto concittadini, avrebbe invece dovuti proteggerli.

   Ma l’arroganza israeliana non poteva conformarsi a questa sottigliezza burocratica: nell’ottobre del 2017 il governo sionista ha deciso di ricorrere al vecchio, ma sempre efficace, metodo della censura. Con il pretesto che incitassero gli arabi alla violenza contro il proprio Paese, la forza d’occupazione israeliana ha fatto incursione in Cisgiordania con l’obiettivo di chiudere ben otto agenzie d’informazione palestinesi. Sei giornalisti sono stati accusati, senza prova alcuna, di essere membri di Ḥamās e arrestati. Tra essi c’era Mohamed Habdan, giornalista dell’emittente Al Quds, che già in un’altra occasione era stato trattenuto e torturato dall’esercito israeliano solo per aver registrato una manifestazione in appoggio ai prigionieri palestinesi.

     Del resto, fin dal 1948, anno della sua nascita, il ricorso alla forza bruta e alla censura è stata da sempre la principale strategia d’Israele per imporre il suo riconoscimento: l’opzione del dialogo con i palestinesi attraverso la mediazione della comunità internazionale non è mai stata presa seriamente in considerazione. Israele, infatti, è l’unica “democrazia” al mondo in cui la censura è legale e trasgredirla implica il rischio di subire una condanna penale: tutti i mezzi d’informazione israeliani sono obbligati ad inviare i loro articoli e servizi relativi alle sicurezza e alla politica estera del Paese ad un censore militare del FDI affinché li revisioni e ne consenta la pubblicazione. L’autorità di quest’ultimo si fonda sulla regolamentazione d’emergenza promulgata immediatamente dopo la creazione dello Stato d’Israele, ovvero, settantaquattro anni fa. Questa regolamentazione gli consente non solo di porre il veto ad un articolo o modificarlo ma anche di proibire al emittente o giornale di avvisare il proprio pubblico che si tratta di lavori “modificati” per volontà altrui.

  Solo nel 2018 il censore della FDI ha proibito la pubblicazione di trecentosessantatré articoli giornalistici (più di sei a settimana) ed ha modificato totalmente o parzialmente circa duemilasettecentodue notizie. Nel gennaio del 2021 l’apparato giudiziario sionista ha censurato il documentario Jenin, Jenin,del regista palestinese Mohammed Bakry, ordinato il sequestro di tutte le sue copie in commercio e imposto all’autore il pagamento di un risarcimento danni di cinquantamila euro nei confronti di un riservista israeliano che appare brevemente nel film. Il documentario era stato girato nel 2002 in Cisgiordania durante l’ennesima campagna militare sanguinaria realizzata dall’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, durante la quale ci furono decine di morti e centinaia di feriti tra la popolazione civile palestinese e furono spazzati via interi quartieri della città.. La telecamera di Bakry aveva ripreso le immagini di crimini di guerra perpetrati da soldati israeliani ai danni di profughi palestinesi, ma, ironia della sorte, nessuno dei militari coinvolti ha mai dovuto rispondere davanti alla giustizia per crimini di lesa umanità, né tanto meno è stato elargito un risarcimento alle famiglie delle vittime. Il registra, invece, che si era limitato a raccontare e mostrare oggettivamente quanto era accaduto, è stato arrestato, multato più volte e perseguitato, e tutti i suoi lavori successivi sono stati proscritti per oltre una decade.

   Secondo l’organizzazione non governativa Reporters Sans Frontières, tra il 2018 e il 2022 sono stati centoquarantaquattro i giornalisti palestinesi feriti dalla forza d’occupazione sionista. Ma in Palestina la censura sionista si estende a tutta l’editoria, ovvero, anche ai libri, e perfino agli archivi di Stato. Nel 2022, le case editrici israeliane hanno presentato al censore ottantatré testi di cui solo trentaquattro hanno ottenuto l’approvazione per la loro pubblicazione. Sempre quest’anno, attraverso una serie di progetti di legge, la censura ha tentato di ampliare il suo raggio d’azione al fine di includere anche i blog indipendenti e i siti web che pubblicano in Israele, e non è detto che non ci riesca.

   Eppure, è evidente che il governo israeliano ancora oggi può commettere tali violenze e restare impunito perché ha alleati internazionali molto potenti, in primis, Stati Uniti e Russia. Ma è quasi tutta la comunità internazionale ad appoggiarlo. L’ONU, il prototipo di governo mondiale, di fatto non ha mai agito con polso duro nei confronti di Israele per impedirgli non solo l’eccidio di palestinesi innocenti ma anche le violenze contro i giornalisti e gli operatori stranieri che si recano in Terra Santa per documentare la brutalità sionista e assistere le loro vittime civili.

  Shireen Abu Akleh è solo l’ennesima martire dell’arroganza israelita e della complicità della stragrande maggioranza dei governi del mondo, che hanno finto di indignarsi i primi giorni successivi alla sua morte, ma poi l’hanno già dimenticata. Così come hanno dimenticato Ian John Hook, Rachel Corrie, James Henry Dominic Miller,  Hamid Shihab, e tutti gli altri professionisti dell’informazione caduti in Palestina. La loro “colpa”? Aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla natura più oscura dello Stato di Israele, e Dio solo sa quanto possano essere rancorosi i sionisti.

Antonio Sparano

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