Impunità come modello per il proliferare della criminalità giovanile

Riceviamo e pubblichiamo integralmente un intervento di Edvige Nastri, attivista civica

Sembra un film neorealista, e invece è la realtà. Ancora una volta a Napoli si scontrano due realtà contrapposte. Ancora due figli della stessa terra hanno compiuto percorsi talmente diversi, anzi opposti, da scontrarsi poi in un conflitto a fuoco dove uno dei due perde la vita. 15 anni e 23 anni, praticamente due ragazzini, eppure già così diversi. Uno cresciuto “senza regole”, l’altro che delle regole ha fatto il suo modello. Uno dalla parte di “cattivi”, l’altro dalla parte dei “buoni”. Ma andiamo per gradi e chiediamoci che cosa spinge un ragazzo di 15 anni ad impugnare un’arma, ancorché giocattolo (ma apparentemente vera), e pensare di poter compiere impunemente delle rapine. Senza dubbio molto dipende dal fatto che non ci sia alcun deterrente. Che la maggior parte dei cittadini, presi alla sprovvista, cedono alle minacce e consegnano il bottino. Non esiste difesa e, se per istinto eccedi nella reazione, la legge italiana ti mette pure sotto indagine. Sempre secondo la legge italiana, un minorenne che delinque non finisce neanche in carcere e spesso la fa franca. Sicché l’Italia e’ diventato il paese ideale per il proliferare della criminalità giovanile. Non a caso da alcuni anni sono nate e proliferano senza sosta le cosiddette baby-gang. Molte sono state le chiacchiere intorno a questo fenomeno, pochi i fatti per porvi un argine. Ciò che però dà maggiormente l’idea di come sia possibile che un ragazzo di 15 anni sia arrivato a pensare di compiere e portare a termine una rapina è tutta scritta nella reazione dei familiari alla notizia del suo decesso. Una famiglia assente sotto il profilo educativo che però immediatamente si fa viva alla notizia della tragedia. Una reazione postuma, inutile e dannosa. Come un branco inferocito devasta il pronto soccorso del Pellegrini dove era stato trasportato d’urgenza il minorenne, attribuendo al presidio salva-vite la causa della morte del loro congiunto. Questi atti incivili non fanno altro che dimostrare e confermare la totale assenza dello Stato. Uno Stato serio avrebbe risposto con una immediata retata sui Quartieri. Senza troppi giri di parole bisogna capire però che il primo nucleo educativo è la famiglia. Il padre del minorenne, intervistato, ha dichiarato di non sapere neanche chi fossero gli amici del figlio con cui, a 15 anni, era ancora in giro, pistola in pugno, passata la mezzanotte a rapinare persone. Inoltre, analizzando la reazione postuma di parenti e amici di questa famiglia, dalla devastazione delle attrezzature del pronto soccorso del Pellegrini, ai colpi di pistola (vere!) sparati ad altezza uomo contro la caserma dei Carabinieri Pastrengo, il quadro educativo si completa di elementi che non lasciano alcun dubbio circa quelli che sono stati i modelli comportamentali e gli input educativi ricevuti dal 15enne sino ad oggi. Violenza, assenza di regole, mancanza di rispetto per la comunità, idiosincrasia nei confronti delle forze dell’ordine. Diciamo pure che questo rappresenta lo stadio di vita primordiale di molti nostri concittadini di cui ci si accorge solo quando vengono in contatto violento con l’altro mondo, quello civile, educato, rispettoso delle regole. Siamo sinceri. Fin quando si ammazzano tra loro, neanche la morte di un 15enne fa tanto scalpore. Al punto in cui siamo l’unica soluzione è il “pugno duro”, sia con i minorenni sia con le loro famiglie. Abbassare l’età imputabile, togliere la patria potestà. Non c’è più spazio ne’ tempo per la comprensione, per la rieducazione. Il troppo buonismo ha gia irrimediabilmente deformato le regole della convivenza civile. E le decine di associazioni sorte in questi anni a sostegno delle classi più disagiate hanno conseguito ben pochi risultati. Ciò che spinge un 15enne ad impugnare un’arma (che fosse giocattolo lo sapeva solo lui!), a coprirsi il viso con uno scaldacollo ed un casco integrale, e a pensare di compiere una rapina, è solo l’idea dell’impunità in una città che ha fatto dell’anarchia il suo modello.

Edvige Nastri

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