Pompei: lascia o raddoppia?

“allora si raccolgano tutte le testimonianze, si crei, l’archivio più grande degli archivi del mondo (che poi spiegatemi i depositi di un museo che traboccano roba a chi servono), foto, video, ricostruzioni e simulazioni…”

Sono chiamata a riempire questo piccolo spazio perché –mio malgrado, e soprattutto malgrado chi legge- ho un’opinione, possibilmente attaccabilissima, più o meno su tutto.

E ce l’ho pure su Pompei.

Gli scavi nella fattispecie. Quel delirio di mattoni, architravi, putrelle, mosaici e cani randagi che giace in coma vigile alle pendici del Vesuvio. Da quando Carlo III di Borbone, bontà sua, ha deciso di mettere mano a secchielli e palette sono successe un sacco di cose, come negarlo. Abbiamo scoperto, ad esempio, i costumi e le abitudini alimentari degli abitanti della cittadina vesuviana, i loro gusti, la loro personale di idea di arte, come si svolgeva la loro giornata, come si incastravano in camera da letto.  E tutto questo divertiva moltissimo il Borbone suddetto –che era uno che sapeva campare e si prendeva poco sul serio- al punto che per lui Pompei era una specie di collezione di farfalle. Tipo veniva un amico da fuori, o ci stava una che gli piaceva e lui per fare colpo diceva uà vieni ti faccio vedere un fatto bellissimo. E quel fatto bellissimo era appunto la cittadina dissepolta da cenere e lapilli, che regalava agli occhi di visitatori increduli, la narrazione di un passato incredibilmente vivido, vicino, proprio grazie alla quantità di informazioni a disposizione.

Forse non si esprimeva proprio così Carlo di Borbone, che pur sempre era un re, però aveva messo a fuoco una cosa fondamentale a mio avviso: e cioè che Pompei era un fatto divertente, ma soprattutto leggero e che siccome lui era re, poteva farci sostanzialmente quello che voleva, almeno fino a che poteva. Come tutti i re hanno sempre fatto, in fondo, e a seguire i protagonisti della storia che negli anni, nei secoli, via via si sono avvicendati. Perché se non è sempre vero che la storia la scrivono i vincitori, è vero però che la scrive chi in quel momento più o meno comanda.

Perché la storia, ma non credo di svelare alcun segreto, è un fatto fluido. E lo so che a tutti noi sembra incredibilmente strano e/o vagamente inaccettabile ma tra qualche anno saremo -chi più chi meno- cibo per i vermi. E se dio vuole questo avvicendarsi continuerà per un po’ di milioni di anni ancora. Perché la storia non è oggi. In compenso l’oggi è anche storia. E -per tornare a Pompei- quello che in queste ore a suon di finanziamenti europei, fondi privati, appelli pubblici, trasmissioni televisive si cerca di salvaguardare, prima o poi si sbriciolerà, esattamente come tutto il resto. Come Palmira, come Ninive, ma anche come la statua di Saddam Hussein (non è forse storia anche quella?) il cui crollo veniva accolto con entusiasmo dalla popolazione di Baghdad nella speranza che i suoi mille pezzi raccontassero la fine di una guerra.

Pompei, nella sua emergenza cronica –e quindi va da sé, non si può più chiamare emergenza- è solo una goccia nel mare del milione di cose che giusto noi, e qualche generazione a noi precedente intende necessario salvaguardare.  Già i più giovani lettori di questo quotidiano ritengono probabilmente indispensabile mettere una teca davanti alla Madonna con la pistola di Banksy in piazza Girolamini, mentre solo qualche nostalgico, anziano lettore pensa con tristezza al complesso monumentale di San Tommaso d’Aquino o alla chiesa di San Giuseppe Maggiore, entrambe buttate a terra negli anni ’30 per fare posto al Nuovo Rione Carità di cui conosciamo le sbriciolose e sbriciolate vicende solo grazie a qualche foto, a giornali dell’epoca. Insomma, la mia discutibilissima idea è che il documento conti più del bene in sé: in altre parole, carta vince su pietra, nella morra come nella storia.

Dice ma noi dobbiamo conservare la memoria, le testimonianze, ognuna di quelle pietre (di Pompei) racconta un fatto. Benissimo. E che allora si proceda in questo senso, si raccolgano tutte le testimonianze, si crei che ne so, l’archivio più grande degli archivi del mondo (che poi spiegatemi i depositi di un museo che traboccano roba a chi servono), foto, video, ricostruzioni, simulazioni. Si metta mano al caro vecchio cemento armato, si guardi al modello giapponese secondo il quale si butta giù tutto e tutto si ricostruisce tale e quale. Una scelta che farà storcere un sacco di nasi (in primis quello di Alberto Angela che con Pompei ha un debito di amore) ma che consente ad una popolazione che fa i conti da sempre con terremoti e incendi di godere, in fondo, del proprio patrimonio culturale, lo aiuta di fatto a non disperderlo. Eh ma è artificio, non vale, quello mica è originale. Chiamo in aiuto, a questo proposito, un immarcescibile Benedetto Casillo che di fronte a un divertito prof. Bellavista si chiedeva con in mano una scarda di cesso (si può scrivere ‘cesso’ su questo giornale?) se il muratore del 3000 l’avrebbe mai recepita come l’opera d’arte che è stata, o come parte pur necessaria di un civilissimo sanitario.

p.s. Nessun archeologo è stato maltrattato per la stesura di questo articolo.

Sarah Galmuzzi

Condividi sui social network
  • gplus
  • pinterest