Magistratura e società, l’occhio di Bruti Liberati su 70 anni di storia italiana

Alla Fondazione Banco di Napoli presentato il libro dell’ex procuratore della Repubblica di Milano: nel dibattito il ruolo delle toghe nell’evoluzione sociale, l’eterno scontro con la politica e spunti autocritici

Le relazioni tra magistratura e società hanno un punto di non ritorno. Dall’epoca di Mani Pulite, le toghe hanno passato il Rubicone, e non sono più un potere oscuro e sacrale, sospeso dal tempo e dalle dinamiche della comunità. Ma sul ruolo dell’ordine giudiziario in Italia, non smetteremo mai di interrogarci. A porsi domande è anche “Magistratura e società nell’Italia repubblicana”(Laterza), il libro di Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore della Repubblica di Milano ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Un testo presentato ieri alla Fondazione Banco di Napoli, ripercorrendo 70 anni di storia italiana, nel pendolo dell’eterna tensione tra potere giudiziario, politica e cittadini. “Magistratura e politica – avverte il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi – hanno ovviamente ruoli distinti, ma incidono sulla stessa realtà che è quella della comunità sociale. Quindi una vera e propria cultura dell’una e dell’altra dovrebbe essere una cultura istituzionale che unisca anziché una cultura autoreferenziale che tende a separare”. Questo a parole, ma nei fatti non accade. Bruti Liberati ricorda che “la Magistratura esercita un grande potere” e spesso è chiamata a “decidere situazioni difficili”. Quindi “deve avere un grande senso di responsabilità sui limiti di questo potere”. E i rapporti tra giudici e la mitica società civile? “Non sempre – aggiunge l’autore – le cose vanno in parallelo, spesso la magistratura è in arretrato rispetto all’evoluzione della società civile”.

 

Una vena nostalgica la individua Alfredo Guardiano, giudice di Cassazione. Trae spunto dal libro, evocando la pellicola cult “Come eravamo”, perché si “delinea la storia della magistratura italiana caratterizzata da una forte capacità propulsiva che oggi si è un po’ appannata”. Eppur qualcosa si muove. I magistrati stanno uscendo dalle austere aule di giustizia, in qualche modo. Lo storico Aurelio Musi rileva “alcune novità nel lessico”, specchio di un cambiamento. “Sono risultate particolarmente significative – spiega Musi – se osservate le inaugurazioni recenti dell’anno giudiziario. A Napoli si è parlato di ‘borghesia camorristica’, un elemento di assoluta novità. E c’è stato un riferimento diretto al razzismo”. Ma c’è sempre una mappa privilegiata, nelle relazioni tra magistrati e società: l’incontro-scontro con la politica, deflagrato nell’ultimo quarto di secolo. “Il settennato di Cossiga segna l’inizio di quella maleducazione istituzionale ancora perdurante” sostiene Pina Casella, sostituto pg in Cassazione ed ex componente del Csm. Nelle picconate dell’ex capo dello Stato, a partire da quelle sui “giudici ragazzini”, intravede “una denigrazione a prescindere”. E quel modello “ha inquinato i rapporti tra magistratura, una parte del ceto politico e la società”. Ma nella guerra dei trent’anni non c’è un vincitore. Se la politica è ormai delegittimata, oggi si registra una “perdita di autorevolezza – sottolinea Casella – dell’istituzione magistratura, che prescinde dall’eccellenza dell’indagato”.

Gianmaria Roberti

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