La celebrazione del padre di Gesù continua a vivere tra sacro e profano

NAPOLI – San Giuseppe è una delle festività maggiormente sentite in Italia e in particolar modo al Sud per il suo significato non solo religioso ma anche sociale e folkloristico. La sua origine si collocherebbe in Europa intorno al X-XI secolo su iniziativa di alcuni monasteri benedettini, i quali avrebbero celebrato tale ricorrenza in modo del tutto privato: solo con papa Gregorio VI nel 1621 vi sarebbe stata la definitiva collocazione nel calendario romano. A tal proposito, la scelta del 19 marzo come data non sarebbe stata casuale: si è infatti nell’anti-vigilia dell’equinozio di primavera, dunque in un periodo in cui già nell’antichità pagana avvenivano celebrazioni legate al “risveglio” primaverile della natura. Nell’antica Roma ricorrevano i Baccanalia, riti dedicati al dio Bacco durante i quali si invocava una particolare protezione per il raccolto del nuovo anno che iniziava proprio a marzo. Inoltre, nelle campagne e nelle valli, al fine di attuare una sorta di purificazione della terra, venivano gettati in grandi roghi cataste di legna e residui dei raccolti della precedente annata. Nel solco di tali rituali “pagani”, si innesta dunque la festa del padre putativo di Cristo. Ancora oggi, in alcune zone del nord Italia ma soprattutto al centro-sud vengono realizzati grandi falò in onore del Santo: si segnalano, in particolare, alcuni centri del Foggiano come Monte Sant’Angelo, Serracapriola e Mattinata dove tali eventi sono celebrati nella notte tra il 18 e il 19 marzo. La legna utilizzata si ricollegherebbe da un lato al mestiere di falegname svolto da Giuseppe, dall’altro ad una leggenda secondo la quale il Santo avrebbe girato a Betlemme di notte per reperire un po’ di brace per il suo figliolo appena nato.

Vari ma allo stesso tempo semplici sono i cibi solitamente consumati in questa ricorrenza dedicata altresì a tutti i papà che hanno in Giuseppe il loro patrono. In primis, il pane, richiamo a Cristo e alla povertà del suo padre in terra, che trionfa in alcune località del Salento e della Sicilia su altari riccamente decorati: quelli di Salemi, in provincia di Trapani, sono piccoli autentici carri allegorici adornati da motivi figurativi fatti di pane, come fiori, animali, pesci o simboli della Passio Christi. E’ tradizione inoltre in questo giorno allestire grandi tavolate: nei secoli addietro ciò accadeva per iniziativa dei notabili dei paesi, oggi invece a cura di parrocchie, confraternite ed enti impegnati nel volontariato. In tali convivi, non può mancare un buon piatto di mafaldine, pasta lunga e arricciata ai lati, condita con salsa di pomodoro oppure con mollica di pane e acciughe o ceci.

In Campania, immagine simbolo di questa festa è sicuramente la zeppola, che sarebbe stata ideata a Napoli in un’epoca assolutamente imprecisata da alcune suore appartenenti a uno dei conventi rinomati della città (S. Gregorio Armeno o la Croce di Lucca). La sua più antica ricetta risale al 1837 per mano di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, che la inserì nella sua celeberrima opera dal titolo “Il grande libro della pasticceria Napoletana”. Alla cosiddetta “zeppola del Duca” è collegato un fatto di cronaca avvenuto a Capri il 18 marzo del 1967, vigilia della festa del Santo. Francesco Bruniroccia, direttore dell’istituto alberghiero dell’isola, organizzò per l’occasione una pubblica degustazione di zeppole preparate dai suoi stessi allievi secondo i precetti del Cavalcanti. I dolciumi, tuttavia, a causa della pasta troppo dura e secca, non piacquero affatto al pubblico il quale non solo iniziò a bere vino per “aggiustarsi” la bocca, ma addirittura reagì duramente con un lancio di zeppole all’indirizzo degli organizzatori. L’obiettivo della manifestazione era stato in pratica raggiunto, ovvero intrecciare abilmente cultura e gastronomia in un evento che sarebbe rimasto a lungo nella memoria dei presenti, i quali ebbero poi modo di assaggiare, al termine del riuscito esperimento, zeppole decisamente più morbide preparate secondo l’odierna tipica ricetta.

Angelo Zito

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