Da qualche giorno rimbalza tra web e carta stampata una notizia carina: praticamente il sindaco di Grenoble ha fatto installare nei pressi delle fermate della metro della sua città dei distributori automatici di racconti, naturalmente gratuiti.

Devi aspettare 5 minuti? Zac. Racconto di 5 minuti. Devi aspettarne 9? Zac racconto di 9. Devi aspettarne 32? Impossibile, che quella è la Francia mica la tomba del trasporto pubblico mondiale. Insomma. La trovata che non mi sembra proprio l’invenzione del secolo- ma diciamolo, ci siamo entusiasmati per molto meno- sta facendo il giro del globo terracqueo e tutti dicono uà bravissimo questo Eric Piolle.

Dimenticandoci per un attimo che questa idea è vecchia come il cucco (date un’occhiata, uno per tutti a letturedametropolitana.it) mi soffermerei su un aspetto altro della faccenda, che ne è conseguenza piuttosto che causa. E cioè che a Grenoble come in qualsiasi altro angolo di mondo, iniziative del genere vanno drammaticamente ad infoltire l’esercito di scrittori, scrittorini, scrittorucoli. Tutti con un’incredibile voglia di dire qualcosa, tutti persuasi di aver pensato un fatto che fino a qual momento nessuno ha pensato prima, o quantomeno di scriverlo meglio.

E’ un meccanismo malato, inarrestabile, cui neanche chi scrive riesce a sottrarsi, e che si alimenta della sua stessa perversione: una specie di horror vacui che ci costringe a riempire di parole e concetti -dei quali probabilmente non si sentiva la mancanza- pagine bianche virtuali e non.

Perché? Perché tutti hanno lo spazio per potersi esprimere, certo, e per citare Umberto Eco ormai tutti gli imbecilli hanno diritto di parola. Ma cosa è successo negli ultimi 50 anni? Alcuni studi mettono in collegamento il vertiginoso aumento del numero di scrittori con il crescente tasso di alfabetizzazione. Vale a dire che siccome tutti più o meno sappiamo leggere, automaticamente pensiamo di saper scrivere, e più leggiamo più ci sembra di avere cose geniali da comunicare all’esterno che la testa ci si riempie di milioni di parole, concetti, idee, spunti che autonomamente si scorporano e poi si aggregano formando altre parole, altre idee, altri spunti.

E questo succede per la musica, per dire. Per la cucina, per l’arte. La grande disponibilità di informazioni a riguardo, di strumenti, la facilità con cui è possibile reperirle, il flusso infinito e indistinto in cui si inseriscono ne fanno perdere la testa e la coda. La motivazione e il fine ultimo. Che non è evidentemente la lettura da parte di terzi visto che –e sono certa di non svelare nessun segreto- tutti scriviamo ma nessuno legge. La nostra giornata principia e termina con uno smartphone in mano, fonte pressocchè unica di approvvigionamento, fenomeno che alla lunga –così come già succede per la musica- porterà alla lenta estinzione dei libri, facendo di fatto perdere loro il valore intrinseco (già accade) ma non, naturalmente, della letteratura che invece, figlia di se stessa, continua a riprodursi per mitosi, in un processo verosimilmente infinito.

Se però è davvero questa la ragione, se tutti scriviamo perché siamo mediamente alfabetizzati e crediamo che questo ce ne offra spunto e diritto, perché estrinsechiamo il nostro essere un sottoprodotto della scuola dell’obbligo solo nell’ambito intellettuale?

Perché la scrittura, così come l’arte –in senso esteso-, non sono, come dire, scienze esatte, e il ‘lo potevo fare anche io’ sport meravigliosamente praticato dall’italiano medio, appoggia le sue zampette gracili sulla mancanza assoluta di una formazione solida, robusta, senza la quale, va da sé, i criteri di bello e di brutto diventano drammaticamente opinabili.

In definitiva: scriviamo tutti e nel 75% dei casi –ma forse pure qualcosa in più- si tratta di un esercizio di stile assolutamente non necessario. Erri De Luca che è quel maitre a penser che tutti amiamo, pianta un albero ogni volta che va in stampa uno dei suoi libri risarcendo la natura di tale –a suo modesto dire- spreco di carta. E noi che infarciamo il webbe con millemila parole inutili che dovremmo fare? Metterci a piantare microchip?

Sarah Galmuzzi

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