Il maestro di judo si racconta in un libro
NAPOLI – “Si chiama Antonio ed è il classico figlio di Scampia”, ed è stato una delle scommesse di Gianni Maddaloni, il maestro di judo, il padre di Pino, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sidney del 2000, una scommessa che lo ha portato a non mollare mai la sua missione: fare dello sport una palestra di vita per i giovani. La storia della sua avventura è racchiusa in circa trecento pagine di un libro che si chiama L’oro di Scampia, che ha scritto in collaborazione con il giornalista Marco Caiazzo e che ha presentato questa mattina nella sala giunta di Palazzo San Giacomo alla presenza di Alessandra Clemente, assessore alle Politiche Giovanili del Comune di Napoli, di Giovandomenico Lepore, presidente Osservatorio della Legalità ed ex procuratore della Repubblica di Napoli, e di suo figlio che adesso è il ct della Nazionale di Judo. La storia è ambientata nella periferia nord di Napoli, quella famosa per lo spaccio, per le Vele, per la camorra dove il maestro ha raccolto quelli che definisce “scugnizzi che ce l’hanno fatta”, quelli che ha portato ad allenarsi nella sua palestra anche grazie alla possibilità di usufruire di corsi gratuiti per coloro che sono in difficoltà economica. Sul tatami, nella palestra di Scampia, salgono non solo i bambini e adolescenti ma anche extracomunitari, ragazzi disabili e detenuti in prova: la dimostrazione, come ha detto Maddaloni, che lo sport è la strada giusta per crescere e per creare le basi per il “vivere sociale”. Nelle pagine del libro si legge la lotta per tenere a galla quello che è stato chiamato “il modello Maddaloni”, composto di tutte le componenti del judo: le regole, il rispetto, l’autostima, la lealtà. Caratteristiche sì comuni a ogni sport, ma che in questa arte paiono assumere una diversa valenza e che insieme hanno contribuito alla conquista, da parte del maestro, del consenso dei tanti che sono ancora al suo fianco. A partire dalle istituzioni: “devo ringraziare il sindaco di Napoli e il presidente del Coni che mi hanno aiutato e a cui ho parlato del mio progetto della cittadella dello sport nella ex caserma Boscariello”, un progetto che permetterebbe di fare attività a circa diecimila bambini.
Seduto al suo fianco un pessimista Pino che più volte ha ripetuto la sua sfiducia “tanto qui non cambia mai nulla” ma che ha sottolineato l’importanza della azione di suo padre, genitore sì, ma non solo. “Occorre avere degli esempi, dei buoni esempi, e a me è capitato. Ma quelli meno fortunati, di esempi possono trovarne altri: come i maestri di sport”. Ed a loro, ai suoi colleghi maestri (qualcuno in sala, fra cui Gennaro Muscariello) Gianni Maddaloni ha dedicato un video nel quale sono segnati i momenti di una giornata in palestra: una giornata fatta di tanti saluti (“il saluto è un momento fondamentale nel judo, ci si saluta prima di salire sul tappeto, ci si saluta prima di un combattimento, ma soprattutto ci si saluta alla fine della lotta”), fatta di lezioni ai ragazzi dove una delle prime cose che si insegna a fare è a cadere (“bisogna saperlo fare, nel judo come nella vita, e bisogna imparare a rialzarsi subito”) e dove ci sono i bimbi che lo chiamano “mae’”. Perché un maestro è così, alla fine lo chiami anche con confidenza, perché ci sono ragazzi per cui quella parola, maestro, racchiude un mondo intero fatto di speranza e del sogno di diventare una persona, una bella persona.
Seduto al suo fianco un pessimista Pino che più volte ha ripetuto la sua sfiducia “tanto qui non cambia mai nulla” ma che ha sottolineato l’importanza della azione di suo padre, genitore sì, ma non solo. “Occorre avere degli esempi, dei buoni esempi, e a me è capitato. Ma quelli meno fortunati, di esempi possono trovarne altri: come i maestri di sport”. Ed a loro, ai suoi colleghi maestri (qualcuno in sala, fra cui Gennaro Muscariello) Gianni Maddaloni ha dedicato un video nel quale sono segnati i momenti di una giornata in palestra: una giornata fatta di tanti saluti (“il saluto è un momento fondamentale nel judo, ci si saluta prima di salire sul tappeto, ci si saluta prima di un combattimento, ma soprattutto ci si saluta alla fine della lotta”), fatta di lezioni ai ragazzi dove una delle prime cose che si insegna a fare è a cadere (“bisogna saperlo fare, nel judo come nella vita, e bisogna imparare a rialzarsi subito”) e dove ci sono i bimbi che lo chiamano “mae’”. Perché un maestro è così, alla fine lo chiami anche con confidenza, perché ci sono ragazzi per cui quella parola, maestro, racchiude un mondo intero fatto di speranza e del sogno di diventare una persona, una bella persona.
Barbara Tafuri