Parole d’autore – La lezione di Calvino sull’importanza di chiamarsi Palomar

Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile

Così ragionano gli uccelli, o almeno così ragiona, immaginandosi uccello, il signor Palomar. “Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, -conclude,-ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”. Questa è la conclusione alla quale giunge il signore di cui sopra, Palomar (Palomar sul terrazzo, il nome del paragrafo), nato dalla penna di Italo Calvino nel 1983, poco prima della pubblicazione di “Lezioni americane” del 1988. In questo piccolo racconto, abilmente articolato, e sprovvisto di qualsiasi disattenzione, Calvino e Palomar si infrangono nelle più minuziose descrizioni e ragionamenti. Lo scritto è diviso in tre parti principali: “Le vacanze di Palomar”, “Palomar in città” e i “Silenzi di Palomar”, ognuna delle quali in altrettanti capitoli e paragrafi, in una struttura concentrica e simmetrica, sempre in forma di tre, che muove dal generale al particolare: chiamate “tipi di esperienza e d’interrogazione”. La sezione scelta in questa occasione è quella riguardante, appunto, Palomar in città e alla sua esperienza visiva da cui viene colto mentre è intento a scacciare i piccioni che “mangiano foglie della gazania, crivellano di beccate le piante grosse, s’aggrappano con le zampe alla cascata di campanule, spillucano le more […] Ai colombi il cui volo rallegrava un tempo le piazze è succeduta una progenie degenerata e sozza e infetta, né domestica né selvatica ma integrata nelle istituzioni pubbliche, e come tale inestinguibili”. Per poi continuare: ”Stretta tra le orde sotterranee dei topi e il greve volo dei piccioni, l’antica città si lascia corrodere dal basso e dall’alto senza opporre più resistenza che altra volta alle invasioni dei barbari, come vi riconoscesse non l’assalto di nemici esterni ma gli impulsi più oscuri e congeniti della propria essenza interiore”.

 

Una certa di forma di decadenza qui sopravviene, e a questa forma di decadenza, che scava, gratta con gli impulsi più oscuri e congeniti della “propria essenza interiore”, la potremmo intendere come degenerazione che parte dall’alto e arriva in basso, stretto in un rapporto biunivoco in cui obiettivi perenni sono le città e, ovviamente, i piccoli centri abitati. E la degradazione può essere, anzi è, tanta in diversi nomi. E ognuno di noi sa bene quale sia, anche senza l’aiuto dei luoghi comuni, o sullo scaricabarili di turno. Ma “la città ha pure un’altra anima-una tra le tante-che vive dell’accordo tra vecchie pietre e vegetazione sempre nuova, nel dividersi i favori del sole. Secondando questa buona disposizione ambientale o genius loci, il terrazzo della famiglia Palomar, isola segreta sopra i tetti, sogna di concentrare sotto la sua pergola il lussureggiare dei giardini di Babilonia”: tegole vecchie e nuova, “Sali scendi di tetti”, pergole di cannucce e tettoie d’eternit ondulata, ringhiere, balaustre, pilastrini che reggono vasi, serbatoi d’acqua in lamiera, abbaini, lucernari di vetro, “e su ogni cosa s’innalza l’alberatura delle antenne televisive”. E pronti a proseguire fino a solcare i selciati della città.
Palomar ha davanti a sé Roma.
Voi, cosa vedete?
Affacciatevi, e ragionateci su.

Vincenzo Perfetti

(Foto www.abbracciamolacultura.it)

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