America Latina, Il “Condor” è tornato

Davanti alla richiesta crescente di giustizia sociale e alla crisi del modello neoliberista, da esse sempre difeso, la risposta delle destre latinoamericane torna ad essere la persecuzione politica e la violenza.

Se c’è una cosa che ho imparato in questi due anni e mezzo vissuti in Argentina è che in America Latina i principi democratici possono trasformarsi in semplici opzioni applicabili o meno a discrezione delle oligarchie regionali e del loro deus ex machina, ossia gli Stati Uniti. Sia chiaro, non mi sono mai fatto molte illusioni sulle reali capacità della democrazia liberale (o borghese) di migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini e favorire così la loro pacifica convivenza, ma prima di conoscere questa parte del mondo mai avrei pensato che ci potessero essere paesi in cui le classi ricche potessero sentirsi così potenti da arrogarsi il diritto di sospendere, per non dire violare, sfacciatamente e senza alcuna remora le libertà fondamentali dei loro avversari politici.

  Il golpe civico-militare contro il governo socialista di Evo Morales del 10 novembre è solo l’ennesimo, e sicuramente non l’ultimo, attacco da parte delle forze reazionarie e conservatrici della regione contro le giovani democrazie sudamericane guidate da governi progressisti. Prima della pilotata crisi boliviana, culminata con il colpo di Stato e l’esilio di un presidente democraticamente eletto, sono stato infatti spettatore di altre anomalie politiche del continente latinoamericano, quali la persecuzione giudiziaria contro la leader progressista, nonché ex mandataria argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, l’incarcerazione illegale di Lula da Silva alla vigilia delle presidenziali brasiliane che l’avrebbero visto sicuramente vincitore, l’inasprirsi delle sanzioni economiche contro il Venezuela di Maduro da parte degli Stati Uniti e dei loro vassalli europei e regionali (Cile, Colombia ed Argentina), e, per finire, la violenta repressione del governo cileno contro le legittime proteste del suo popolo, stanco dei 30 anni di neoliberismo e di pseudo democrazia ereditati della sanguinaria dittatura di Pinochet.

Dunque, come si vede, i fatti boliviani non hanno nulla di sorprendente, nemmeno per chi, come il sottoscritto, ha vissuto buona parte della sua vita nella vecchia e “democratica” Europa. Oggi, più che mai, in gran parte dell’America Latina, l’ingerenza degli USA, inspirata alla vecchia dottrina Monroe, e lo sproporzionato potere delle lobby locali si fiuta nell’aria che si respira: il 90% dei mezzi di comunicazione, infatti, non si preoccupa affatto di informare i cittadini ma solo di fare propaganda alle destre del continente, da sempre al servizio del capitalismo, celando i loro fallimenti e denigrando continuamente le sinistre e i suoi principali leader. Ma forse l’aspetto più evidente della società latinoamericana è l’odio di classe diffuso tra i ceti più ricchi. Il disprezzo delle classi più agiate verso quelle lavoratrici e povere è riassumibile in uno dei concetti più abusati nei loro discorsi politici: la “meritocrazia”. Dietro alla loro distorta concezione di “merito” si cela un vero e proprio razzismo sociale, per cui: chi nasce povero deve accettare tale condizione originaria senza pretendere alcuna opportunità di progresso economico e sociale. E pur di mantenere questo status quo, le oligarchie latinoamericane sono disposti a svendere il proprio paese alle potenze del cosiddetto “primo mondo”, prima fra tutte gli Stati Uniti, da sempre interessati al controllo delle abbondanti risorse naturali del continente sudamericano, a perseguitare giuridicamente gli oppositori politici come in Brasile, Argentina, Ecuador, a reprimere nel sangue le proteste di chi si oppone ai loro privilegi, come in Cile, fino ad appoggiare apertamente golpe militari, con quello messo in atto in Bolivia in queste ultime settimane.

   Ma nonostante i bizzarri sforzi dei principali network statunitensi ed europei (CNN e BBC su tutti) di presentare il golpe boliviano come una normale evoluzione della democrazia di quel paese, la realtà è tutt’altra e ci dice che in Bolivia, come nel resto dell’America Latina, dagli anni delle sanguinarie dittature militari la destra non è cambiata per niente, ovvero, è ancora sostanzialmente  antidemocratica. Al di là delle false notizie sui presunti brogli che si sarebbero verificati durante le presidenziali del 20 ottobre e tutt’oggi non dimostrati, ciò che è certo è che il leader del socialismo boliviano, Evo Morales, continua a godere del consenso della maggioranza del suo popolo perché il suo governo, a differenza di quelli che l’hanno preceduto (tutti di destra),  non ha svenduto le risorse naturali del paese agli sciacalli nordamericani ed europei, ma ha scelto la via della loro statalizzazione e con i guadagni ottenuti rimodernato il paese. Le sue politiche fondate sulla giustizia sociale hanno ridotto l’analfabetismo portandolo dal 13% al 2,4%, la disoccupazione portandola dal 9,4% al 4,1%, e dimezzato la povertà. Insomma, nel 2006 Evo Morales ha ereditato un paese che era fermo all’epoca coloniale e in soli 12 anni ne ha fatto un esempio virtuoso per tutto latinoamericano. Ma cosa ancora più importante: ha dato dignità alle popolazioni indigene del paese, fino ad allora denigrate, oppresse e sfruttate dalla ricca minoranza bianca, espressione dell’oligarchia boliviana. Tutto ciò è stato mal digerito da quest’ultima, e poiché non è in grado di offrire ai boliviani un’alternativa credibile alle politiche vincenti del socialismo, con la complicità degli Stati Uniti, da sempre attratti dalle riserve acquifere e gas del paese e, soprattutto, dai suoi enormi giacimenti di litio, l’oro del futuro, di cui è il principale fornitore del pianeta (la Bolivia possiede, infatti, il 70% del litio mondiale), ha deciso ancora una volta di giocare sporco, ovvero di eludere la volontà popolare con la forza militare. La destra latinoamericana non è mai cambiata; continua ad essere quella degli anni 70 del secolo passato: prepotente, antidemocratica e corrotta. Le piace vincere facile, e quando non ci riesce, reprime. Il (piano) Condor è tornato… o, forse, non se n’è mai andato. 

Antonio Sparano

ricercatore presso l’Università di Buenos Aires

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