La deposizione di Lucia e Manfredi al processo: “Se il diario  fosse finito nelle mani giuste, non ci sarebbe stato il clamoroso depistaggio”

CALTANISSETTA – “Se l’agenda rossa fosse finita nelle mani giuste, non ci sarebbe stato il clamoroso depistaggio al quale abbiamo assistito successivamente. Bastava sfogliare qualche pagina per scoprire l’importanza del suo contenuto”. Sì, l’agenda rossa esisteva ed era nella borsa di Paolo Borsellino il giorno della strage di via D’Amelio. Lo ripetono i figli Manfredi e Lucia, testimoni oculari, davanti ai giudici nisseni del quarto processo per l’eccidio. Alla sbarra i boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia e i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, autori del depistaggio costato l’ergastolo a sette innocenti. “Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, l’agenda rossa da cui non si separava mai” racconta Lucia Borsellino. Parole confermate dal fratello che ricorda il padre “scrivere compulsivamente sul diario. Dopo la morte di Giovanni Falcone – dice alla corte d’assise – la usava continuamente. E non per appuntare fatti personali. Era certamente un modo per segnare eventi e cose di lavoro importanti. Se non fosse andata persa, le indagini sulla sua morte avrebbero certamente preso un’altra direzione”. Manfredi è certo che abbia resistito all’esplosione, come l’altra agenda ritrovata intatta nella borsa del magistrato. La valigetta fu restituita ai familiari dopo qualche settimana, ma senza il documento. A riportarla a casa fu l’allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera, che coordinava il gruppo investigativo sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. “La Barbera escluse che ci fosse stato e mi disse che deliravo”, dichiara Lucia Borsellino. Manfredi sottolinea che nessun investigatore fece loro domande sul diario del padre. ” A La Barbera sembrava interessare solo di sbrigarsi  – spiega Manfredi Borsellino – e che gli stessimo facendo perdere tempo. Praticamente disse a mia sorella Lucia che l’agenda non era mai esistita e che farneticava”.

Negli ultimi giorni Borsellino aveva capito di avere poco tempo. “Sapeva di andare incontro  – dice il figlio – a un destino segnato. Ce lo aveva detto dopo la morte di Falcone e voleva essere sentito dai colleghi di Caltanissetta che indagavano sull’eccidio di Capaci. Tanto che, in un’occasione pubblica quasi a sollecitare la sua convocazione, disse che della tragica fine dell’amico avrebbe parlato solo ai magistrati nisseni”. Ma l’audizione non avverrà mai.  Due anni fa Francesco Paolo Giordano, ex procuratore aggiunto a Caltanissetta nel 1992, dichiarò che con l’allora capo dei pm Giovanni Tinebra si era concordato di sentire Borsellino la settimana successiva al 20 luglio. Lucia si sofferma anche su Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa. “Una volta un mio ex fidanzato  – riferisce la donna – chiese a mio padre cosa pensasse di Bruno Contrada e lui si turbò molto. Ci fece capire che era una persona di cui non si doveva parlare”. Ma se ne dovrà parlare ancora.

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