Ecuador: scoppia la protesta anti sistema

  

 Riceviamo e pubblichiamo integralmente

È passato più di un mese dal 13 giugno, da quando la CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador), la confederazione che raggruppa le dodici minoranze indigene del paese andino, ha iniziato una mobilitazione sociale contro le politiche del governo neoliberista di Guillermo Lasso, che si è estesa a tutto il territorio, campagne incluse, e sta coinvolgendo la quasi totalità della popolazione ecuadoregna.

  Già nel 2019 nel paese andino si ebbero proteste violentissime, che lasciarono un saldo di 11 vittime, 1.324 feriti e più di 1.300 detenuti. In quel occasione, il malcontento popolare era stato provocato dal decreto dell’allora presidente Lenín Moreno che liberalizzava il prezzo dei combustibili. Chi conosce un po’ la società e l’economia del continente latinoamericano, sa che l’aumento di questi prodotti determina un aumento anche di tutti gli altri, in primis, quelli di prima necessità, e se lo stipendio medio di un lavoratore non supera i 400 dollari, l’inflazione per la maggioranza diventa non più solo un problema, ma un incubo. Le proteste del 2019 ottennero la desistenza parziale di Moreno, il quale optò per un nuovo decreto che stabiliva un incremento graduale del prezzo della benzina.

   Oggi, però, quella che solo tre anni fa i ceti più poveri del paese, ovvero, la maggioranza degli ecuadoregni, aveva accolto quasi come una vittoria, si è rivelata essere una vera e propria trappola, la cui natura è emersa al primo cenno di una crisi economica internazionale. Il confronto bellico tra Ucraina e Russia, e le sanzioni imposte dalla NATO a quest’ultima hanno determinato un aumento improvviso e incontrollato de costi delle materie prime. La speculazione finanziaria internazionale, naturalmente, non ha risparmiato il petrolio ecuadoriano, e in un paese dove la rete ferroviaria è pressoché inesistente e tutte le merci viaggiano su ruote, l’aumento dei carburanti porta inevitabilmente con se anche quello dei beni di consumo.

   Ma la delusione e il malcontento della società ecuadoregna viene da molto lontano e non coinvolge solo il governo conservatore di Guillermo Lasso, il primo dopo vent’anni: tutta la classe dirigente del paese appare inadeguata. Anche la cosiddetta “sinistra” sembra totalmente incapace di farsi carico delle istanze reali dei cittadini: i “progressisti” del Movimiento Revolución Ciudadana, del Movimiento de Unidad Plurinacional Pachakuitk e di Izquierda Democrática, come quelli di tutta l’America Latina, preferiscono auto celebrarsi, difendere i loro piccoli feudi elettorali e, soprattutto, ingraziarsi il favore dei signori di Davos attuando la cosiddetta Agenda 2030, così d’assicurasi una carriera politica che sia la più longeva possibile. 

   Le tre principali forze della “sinistra” ecuadoregna sono accomunate solo da una vuota retorica  contro il neoliberalismo, ma di fatto non hanno mai voluto allearsi e portare avanti un progetto di governo che mirasse ad uno sviluppo economico e culturale dell’intera società. Si può dire che negli ultimi vent’anni, al di là di qualche breve periodo di conquiste sociali, gli ecuadoregni siano stati vittima dell’ambizione di Correa e del cieco rancore dei suoi avversari, non solo di destra, ma anche dello stesso fronte “progressista”.

   In effetti, il correísmo aveva mostrato evidenti segni di deterioramento già alla fine del secondo mandato del suo leader. Il trionfo del suo candidato Lenín Moreno contro Guillermo Lasso nelle presidenziali del 2017 aveva celato parzialmente questo declino. Quella vittoria elettorale aveva fatto perdere di vista ai dirigenti di Revolución Ciudadana la necessità di un’autocritica. Moreno non aveva stravinto: lo scarto tra il candidato “progressista” e il peggior esponente del conservatorismo ecuadoregno era stato di solo tre punti. Questo significava che la gestione del ex presidente Correa era stata tutt’altro che soddisfacente per una parte consistente di popolazione: soprattutto nel secondo mandato, invece di ridursi, la distanza tra la coalizione di governo e i movimenti sociali, che l’avevano appoggiata durante le due campagne elettorali, si era ampliata.

  Un primo sentore dell’imborghesimento del movimento populista di Correa si ebbe con il tradimento, alquanto prevedibile, di Lenín Moreno: il presidente “progressista”, appoggiato dall’oligarchia agricola, commerciale e mediatica, e supportato nel Congresso dai partiti di destra, il Movimiento Creando Oportunidades (CREO) e il Partido Social Cristiano (PSC), orientò il governo ecuadoregno verso politiche neo liberiste. Solo a quel punto Correa e gli altri vertici di Revolución Ciudadana si resero conto che la coalizione elettorale, Alianza PAIS, che aveva portato Moreno alla presidenza, era nata già inferma e corrotta. Il blocco di legislatori che facevano capo all’ex mandatario, 30 sui 74 della coalizione di governo, cercò di rimediare all’errore politico rompendo l’alleanza e creando il primo vero fronte di opposizione al presidente traditore. La neonata opposizione del RC votò compatta contro qualsiasi iniziativa legislativa di appoggio all’accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alle politiche di austerità del governo e allo stesso tempo cercò di riallacciare il dialogo con le forze sociali extra parlamentari per costruire un unico fronte di lotta. Ma in quegli anni la sua opposizione a Moreno e all’oligarchia che lo appoggiava fu irta di ostacoli: il movimento dovette disimpegnarsi in condizioni di costante persecuzione mediatica e giuridica, che portò, tra l’altro, all’esilio dello stesso Rafael Correa. Di fatto, fino al secondo semestre del 2019, i trenta legislatori di  Revolución Ciudadana furono l’unica opposizione parlamentaria al governo.

  Il Pachakutik, infatti,optò per un’azione politica differente nei confronti del governo: intriso di anti-correismo, questo movimento politico accettò l’offerta di dialogo da parte di Moreno, e insieme alla CONAIE, sua espressione sociale, iniziò a sostenere parte delle sue politiche. In cambio, esponenti del Pachakutikottennero importanti incarichi ministeriali come la Segreteria Nazionale dell’Acqua e una rappresentanza in istituzioni influenti come il CPCCS, Consejo de Participación Ciudadana y Control Social, organo che nomina le principali autorità di controllo. La collaborazione tra questo movimento di rappresentanza delle minoranze indigene e il governo di Moreno si interruppe con lo scoppio della già citata mobilitazione sociale dell’ottobre 2019, innescata dal decreto presidenziale, noto come decreto 883, che eliminava i sussidi destinati ai combustibili. Le proteste furono massive e furono represse ferocemente dal governo: furono migliaia le prove delle  violenze perpetrate dalla polizia e dai militari ai danni di manifestanti inermi fornite non solo dal movimenti indigeni, ma anche dal blocco correista di Revolución Ciudadana e dalla Commissione Speciale per la Libertà e la Giustizia.

   Dopo quei fatti, la strategia del governo fu evidente: l’ammiccamento iniziale verso l’opposizione indigena aveva come unico scopo quello di scongiurare una sua alleanza con il blocco correista, in accordo con la famosa massima dividi et impera. Era chiaro che da quel momento il poi Moreno avrebbe disatteso tutti gli accordi presi con il Pachakutik. Quest’ultimo, insieme alle altre organizzazioni indigene, cercò di rimediare alla fallimentare strategia del dialogo elaborando nell’ottobre del 2019 un piano di governo alternativo che prese il nome di Minga por la vida. La rottura con Moreno e questo nuovo programma di forte opposizione al suo esecutivo faceva pensare alla possibilità di una riavvicinamento tra il movimento indigeno, il correismo e le altre forze progressiste, ma nonostante l’acuirsi della vocazione autoritaria del governo, la diffidenza e le tensioni ebbero ancora una volta la meglio sui punti in comune. Insomma, la configurazione di un unico blocco di opposizione restava una chimera.

  La destra, nel frattempo, amplificava il discorso demagogico del governo secondo il quale qualsiasi mobilitazione contro le sue sciagurate politiche economiche e sociali costituiva un pericolo per l’unità nazionale. Ma è stato con l’avvento della “pandemia” che il PSC e il CREO hanno mostrato tutta la loro natura autoritaria, razzista e liberticida: approfittando dello stato d’emergenza sanitaria che proibiva ai cittadini di manifestare e riunirsi, pena la repressione violenta e la detenzione, queste due forze di governo hanno impulsato la liberalizzazione del prezzo dei combustibili, la legislazione in favore delle lobby nazionali e internazionali e i tagli ai sevizi essenziali (educazione e sanità). Inoltre, in vista delle elezioni presidenziali del 2021, sono riuscite a far confluire tutte le forze conservatrici su un unico candidato: Guillermo Lasso.

  Il Pachakutik e la nuova alleanza “progressista” del UNES, Unión por la Esperanza, formatasi intorno ai correisti di  Revolución Ciudadana, invece, hanno continuato ad essere distanti.

   La scelta del candidato del  Pachakutik non è stata esente da tensioni: la preferenza dei suoi dirigenti per un candidato politico come Yaku Pérez a discapito di leader sociali, come Leónidas Iza e Jaime Vargas, che si erano fatti valere durante la mobilitazione dell’ottobre 2019, ha suscitato non pochi malumori all’interno della compagine indigena. Per il MICC, Movimiento Indígena y Campesino de Cotopaxi, e la già citata CONAIE, entrambi sembravano più capaci e determinati di Pérez nel far valere gli interessi della maggioranza dei cittadini e instaurare un governo veramente popolare. Tra l’altro, anche i sondaggi fatti a inizio del 2020 davano ragione alla base sociale del movimento indigeno: nelle intenzioni di voto in vista delle presidenziali dell’anno successivo sia Iza che Vargas si collocavano quasi alla pari con Rafael Correa e Jaime Nebot, leader dei cristiano socialisti. Ma nonostante il sostegno popolare e le denunce del MICC e del CONAIE per la poca trasparenza nel processo di selezione del candidato, alla fine nella scelta del Pachakutik a prevalere è stato Pérez: la dinamica di partito si è imposta ancora una volta su quella sociale. Nei mesi successivi di campagna elettorale, però, le tensioni tra il movimento sociale e il suo braccio politico sono state messe da parte e il lavoro organico sul territorio ha portato ad uno storico risultato per il Pachakutik e il suo candidato: al primo turno delle elezioni del 2021 Pérez ha ottenuto un 19,39% dei consensi, ossia il terzo posto, a soli 32.000 voti da Guillermo Lasso, che è arrivato secondo, mentre il suo partito ha conquistato 26 seggi, costituendo così il secondo blocco più grande del Congresso.

   Anche il correismo, riorganizzatosi intorno all’UNES, ha optato per un candidato proveniente dalla dirigenza di Rivolucion Ciudadana, il principale partito della coalizione. Andrés Arauz è apparso subito come un giovane tecnocrate senza una chiara visione politica: un personaggio semi sconosciuto alle masse popolari, la cui campagna elettorale è stata costruita sull’esaltazione (e la nostalgia) dell’esperienza di governo del leader esiliato. Nonostante tale pochezza di contenuti, al primo turno Arauz è riuscito ad imporsi come primo eletto, con 13 punti di vantaggio sul Lasso, e la UNES ad ottenere 49 seggi, costituendo così il gruppo più grande del Congresso Nazionale. Ma per avere la meglio anche al secondo turno sul candidato conservatore e l’apparato mediatico e finanziario che lo sosteneva, Arauz avrebbe dovuto necessariamente rinnovare la sua proposta politica e ampliare il consenso intorno alla sua figura.

   Ciò non è stato fatto, anzi: nel ballottaggio con Lasso si è acuita la distanza tra il correismo e le altre forze di “sinistra”. L’anti-correismo è divenuto il sentimento dominante tra gli altri esponenti progressisti, che, di fatto, non hanno chiesto ai loro elettori il voto per il binomio Arauz-Rabascall. I dirigenti del Pachakutik e del CONAIE hanno esplicitamente invitato la loro base all’astensionismo, in linea con lo slogan “Né con Lasso, né con Correa”, lo stesso che chiude il documento programmatico di Minga por la vida. L’11 aprile del 2021, giorno del voto, si è registrata la percentuale più alta di astensione ad un secondo turno di elezioni presidenziali: più del 16% degli  aventi diritto, fattore tutt’altro che irrilevante per la vittoria del candidato della destra, Guillermo Lasso.

   Ma attribuire al solo voto nullo il fallimento del correismo, di cui si aveva sentore fin dall’inizio della campagna elettorale, sarebbe da ingenui, come ha implicitamente ammesso lo stesso Arauz, il quale, sebbene in ritardo, ha lasciato intravedere un minimo di quella strategia politica che gli era mancata durante tutta la campagna elettorale. Nulla, comunque, di veramente costruttivo per il benessere comune. Dopo l’ufficialità della sua sconfitta, infatti, il candidato dell’UNES ha espresso chiaramente la necessità di dar vita ad una nuova alleanza “progressista” che includesse anche le organizzazioni indigene e la socialdemocrazia. Per quanto riguarda quest’ultima, Arauz alludeva chiaramente a Izquierda Democrática, una sorta di Partito Democratico in salsa ecuadoregna, che ha avuto il suo auge alla fine degli anni ’80, e che sta rivivendo una seconda giovinezza grazie al discorso globalista e demagogico del suo leader, l’impresario Xavier Hervas, incentrato nell’esaltazione dell’economia finanziaria e speculativa e la domanda di più diritti “civili” per le organizzazioni femministe e LGBTI. Al primo turno questo esemplare del nazi-progressismo propugnato dai matti di Davos ha ottenuto il 16% delle preferenze, che è valso al suo partito 18 seggi convertendolo in un blocco influente all’interno della frammentata Assemblea Nazionale.

   Ma i progetti di rinnovamento e ampliamento del fronte progressista del insipido e ininfluente Arauz sono stati stroncati sul nascere da Rafael Correa. Il lider maximo della “sinistra” ecuadoriana, el dueño, di fatto, di Rivolucion Ciudadana e della colazione costruita intorno al suo partito, la UNES, con il pretesto della prolungata crisi politica del paese e la necessità di «dare governabilità» al neo presidente Lasso, ha indotto la cupola del suo movimento a stringere un  accordo con il quello che fino a pochi mesi prima era il suo principale nemico: il blocco della destra composto dal CREO e dal PSC, in vista delle elezioni delle principali cariche dell’Assemblea Nazionale. Di fatto, ciò che cerca Correa è un indulto che gli permetta di ritornare nel suo paese per riprendersi la scena politica. Ma a quale costo? Aspirare ad un provvedimento ad hoc viene già interpretato da una buona parte dell’opinione pubblica ecuadoriana come un’ammissione di colpevolezza e dal suo elettorato come un segno di debolezza verso chi, la destra, ha orchestrato un ridicolo processo giudiziario nei suoi confronti. È evidente, però, che anche per Rafael Correa, come per i suoi amici, l’argentina Cristina Fernández de Kichner e il brasiliano Lula da Silva, la propria “libertà”, i propri interessi  e la propria ambizione contano molto di più della propria credibilità e dignità.

   Nemmeno i dirigenti del Pachakutik, comunque, sono immuni dalla brama di potere: anche quest’altra forza “progressista” ha offerto il suo appoggio al governo entrante. In questo modo, Lasso, pur non avendo una maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale, ha potuto di fatto contare, fin da subito, sul sostegno potenziale di entrambi i blocchi di “opposizione” e allo stesso tempo alimentare la loro reciproca diffidenza scongiurando così una possibile alleanza delle sinistre. Un’occasione in tal senso si è presentata subito con l’elezione del Presidenza del Congresso, e, ovviamente, lo scaltro Lasso non se l’è lasciata scappare. Ha fatto credere ai correisti che sarebbe stata assegnata ad un loro candidato, ma poi i voti del CREO e del PSC  si sono uniti a quelli dell’ ID, e ad essere eletta è stata Guadalupe Llori del Pachakutik: un’indigena che durante il governo di Correa era stata arrestata e tenuta in prigione nove mesi per terrorismo e sabotaggio. Insomma, una giocata maestra di Lasso che ha fatto passare il suo principale avversario per un pivello della politica.

 Questa, dunque, è la situazione dell’agone politico ecuadoregno degli ultimi 15 anni. Un situazione essenzialmente non dissimile da quella delle altre “democrazie” liberali d’Occidente. Non che prima fossero la perfezione, sia chiaro: ma è evidente che negli ultimi quarant’anni, ovvero a partire dagli anni ’90, si siano progressivamente trasformate in teatrini dove l’inciucio si è sostituito al dialogo, dove l’interesse economico di oligarchi transnazionali e le becere ambizioni dei loro giullari locali travestiti da legislatori hanno assorbito tutto lo spazio politico corrompendolo fino alla radice.

  Di questa corruzione, di cui è testimone da anni, la società ecuadoriana è ormai stanca e sembra voglia finalmente appropriarsi del proprio futuro. E non è l’unica. La crisi del grano e delle materie prime, l’aumento dei prezzi, la disoccupazione crescente stanno scatenando manifestazioni e proteste in tutti gli angoli del pianeta: Albania, Olanda, Sri Lanka, Libia, Cina, Argentina. Una parte importante della società mondiale sta prendendo coscienza che delegare a marionette in giacca e cravatta la difesa dei propri diritti fondamentali è un rischio che non si può più permettere, perché dietro i fili che muovono i “politici” ci sono folli oligarchi, come i Soros, i Gates, i Musk, i Rockefeller, i Rothschild,, i Clinton, gli Elkann, che odiano l’umanità, che la reputano superata e parassitaria, e per questo intendono schiavizzarla e ridurla al minimo. Questi signori, che si sono inventati prima la “pLandemia” e adesso una guerra mondiale a bassa tensione, si sentono dei e vorrebbero anticipare l’apocalisse: ma sono solo pazzi demoni… ed è venuto il momento che se ne tornino all’inferno, portandosi dietro anche i loro miserabili lacchè. 

Antonio Sparano   

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