Coronavirus,  altro che ‘distanziamento sociale’: ridurre le differenze di classe

Riceviamo e pubblichiamo integralmente

Questo tempo eccezionale dettato dal coronavirus, oltre a segnare una crisi sanitaria di livello mondiale, sta lasciando sul campo anche alcuni errori macroscopici, spesso volutamente, in ordine al corretto uso delle parole, non già dal punto di vista strettamente grammaticale, ma per l’utilizzo di ceppi di parole socialmente pericolosi.

Uno di questi esempi è quello di far passare il “distanziamento fisico” tra persone come un “distanziamento sociale” fra essi. Dannoso, sbagliato e controproducente, a mio avviso. 

Il distanziamento sociale è principalmente elemento di analisi della sociologia dell’ambiente, del territorio e del turismo.

Penso che confondere il “distanziamento fisico” per combattere il coronavirus, come massima misura contenitiva di questo tempo storico, con l’accezione “distanziamento sociale” sia un’aberrazione, oltre che un errore semantico. Credo ancora che bisogna andare a prendere una qualche lezione da un ordinario di ricerca sociale piuttosto che da un esperto di scienze della comunicazione per non macchiare l’uso della parola. Ma vedo che, purtroppo, il pensiero comune va in altra direzione. Così alle cosiddette fake news si aggiungono le “fake semantiche”, quando si dice che il livello è molto sotto lo zero.

L’interesse accademico per la “distanza sociale” è specifico, sul punto, alla morfologia delle città, ai loro caratteri fisici, alla continuità storica degli aggregati urbani di città metropolitane.

Così si dice che Palermo è stata caratterizzata da una massiccia speculazione edilizia nel secondo dopoguerra, che Napoli è una città policentrica e asimmetrica, che, per esempio, Roma è caratterizzata dal terziario e Genova dalle attività legate massimamente all’economia portuale.

Tutt’alpiù, per parlare con un linguaggio meno universitario, le classi sociali sono caratterizzate da distanza sociale. I ricchi e i poveri, i borghesi e i proletari, per individuarne alcuni. E, molto spesso, questi censi sociali si collocano in modo diverso anche nella distribuzione urbana: città/provincia, centro/periferia.

Non vorrei che questo virus allontanasse anche socialmente gli individui, in tal caso i danni dallo stesso provocati risulteranno ben più gravi di quanto si prospetti. Ma per fortuna e solo una corrente di pensiero (e di scrittura).

Al contrario questo virus, sin dalla sua comparsa, ha spinto gli esseri umani verso uno spontaneismo di gesti che tentavano, in una prima fase riuscendovi, a colmare il distanziamento fisico proprio con una comunanza sociale del proprio comportamento: applausi congiunti dai balconi, l’inno nazionale come elemento di unità, le cantate collettive, le videochiamate. E tanti altri elementi che si proponevano di “recuperare” proprio quelle distanze fisiche che andavano disperdendosi, giammai alla stregua di un distanziamento sociale. Tutt’altro!

Che cosa rimarrà di tutto ciò dopo il coronavirus?

Le distanze fisiche si recupereranno, ma rimarranno quelle sociali. Quindi i ricchi continueranno ad essere tali, così come i poveri, i proletari, i borghesi e giù di lì. Allora bisogna parlare più correttamente di scala o rango sociale, quella cosa che seleziona il genere umano e non mettere tutti dalla stessa parte.

Se proprio una lezione bisogna imparare, una volta ritornati ad una condizione umanamente più accettabile, è quella di recuperare proprio le distanze sociali, ovvero quelle differenze di classe che tanti problemi comportano a gran parte del genere umano.

Chi pratica questa confusione verbale non è neutro, ma si propone di estorcere una direzione di marcia, convincere a praticare scelte, ad indirizzare il gregge. Non vi illudete che sia solo una questione terminologica, ben altro si nasconde dietro questa forma sbagliata di italiano.

Raffaele Carotenuto

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