Aveva 74 anni e soffriva di Parkinson: era ricoverato a Phoenix. E’ stato il più grande pugile di tutti i tempi, ma un simbolo anche nelle lotte per i diritti civili
Era il più grande di tutti i tempi, anche per il coraggio con cui seppe esporsi fuori dal ring per i diritti civili, in tempi duri. Muhammad Ali è morto nella notte all’età di 74 anni in un ospedale di Phoenix, in Arizona. Il leggendario pugile era stato ricoverato giovedì scorso per problemi respiratori ma solo a scopo precauzionale, data l’età e la sua condizione di malato del morbo di Parkinson. Era stato in ospedale diverse volte negli ultimi anni. L’ultima nel gennaio 2015, per una grave infezione alle vie urinarie.
UN MITO OLTRE IL RING – Muhammad Ali è ritenuto il più grande pugile di tutti i tempi, un mix di classe, velocità e potenza. Ma è anche l’uomo che ha fatto la storia fuori dal ring. Un campione dei diritti civili, alfiere della lotta alla segregazione razziale. Nacque col nome di Cassius Marcellus Clay Jr a Louisville il 17 gennaio 1942.
Il giorno dopo la conquista del titolo mondiale dei massimi, strappato a Sonny Liston nel 1964, la prima svolta. L’allora 22enne Cassius Clay si convertì alla fede islamica, aderì alla Nation of Islam e cambiò legalmente il suo nome in Muhammad Ali. All’attivo aveva già l’oro olimpico dei mediomassimi ai Giochi di Roma nel 1960. “Come mi piacerebbe essere ricordato? Come un uomo che non ha mai venduto la sua gente. Ma se questo è troppo, allora come un buon pugile”, disse una volta. Arrogante e strafottente fuori dal ring, non faceva mistero di considerarsi “the greatest”, il più grande. La conversione all’Islam e l’abbandono del suo “nome da schiavo” segnò l’inizio della battaglia contro il governo statunitense per il quale si rifiutò di combattere in Vietnam. “Dov’è il Vietnam? In tv. Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato ‘negro'”, spiegò. Quello con le istituzioni americane è un match che durerà per alcuni decenni. A causa di un episodio di razzismo gettò nelle acque del fiume Ohio l’oro vinto a Roma. Solo nel ’96 il Cio gli riconsegnò una una medaglia sostitutiva. Nel 1967 fu privato del suo titolo mondiale e gli fu soprattutto impedito di salire sul ring per 4 anni. Tornerà a combattere solo nel 1971, dopo aver perso gli anni migliori della sua carriera. Ma recupererà il tempo perduto con tre incontri che hanno scritto la storia dello sport.
Il primo l’8 marzo 1971 contro Joe Frazier, “il match del secolo” che si risolse con la sua prima sconfitta da professionista. Poi il “Rumble in The Jungle” a Kinshasa, il 30 ottobre 1974, con la vittoria in otto round su George Foreman che gli permise di riprendersi la corona dei pesi massimi spinto dal pubblico che urlava “Ali boma ye”, “Ali uccidilo”. E infine il “Thrilla in Manila”, l’1 ottobre 1975, il terzo e ultimo incontro con Frazier. Con lui Ali, che si era già preso una prima rivincita nel ’74, ha di nuovo la meglio, complice il ritiro dell’avversario prima della 15esima e ultima ripresa. Il titolo lo conserverà fino alla sconfitta ai punti con Leon Spinks nel febbraio ’78. Ma se lo riprenderà qualche mese dopo prima di appendere i guantoni al chiodo nel 1981 dopo 61 incontri e un bilancio di 56 vittorie, di cui 37 per ko, e appena 5 sconfitte. Ma appesi i guantoni al chiodo, inizia il match più difficile, quello contro il morbo di Parkinson diagnosticatogli nel 1984, a soli 42 anni. The greatest però non si è mai arreso, diventando un esempio di coraggio anche nella malattia. Ed alla storia sono passate anche le immagini di quando accese il braciere dei Giochi di Atlanta ’96 come ultimo tedoforo, tremante ma indomito. Nonostante la sofferenza soltanto negli ultimi anni si era del tutto ritirato a vita privata. Alcuni esperti sostengono che la malattia possa essere stata causata dai colpi presi sul ring nel corso della carriera. Sposato quattro volte, lascia 9 figli.