
Il progetto: archivi online consultabili dalle scuole e paesaggi immersivi sonori, senza prescindere dalla ricerca
“Il fardello è stato restituito alla madre”. Si legge sfogliando uno dei tomi, poggiati sulla scrivania, con i verbali di ammissione. Pagine ingiallite dal tempo che oggi risuona nel ticchettio di un anonimo orologio anni Settanta appeso alla parete. In quelle stanze antiche, comunicanti tra loro attraverso porte, l’una dentro l’altra come le matrioske. Quasi a nascondersi dallo spazio di fuori, a occultare malattia e vergogne. È la sequenza degli istanti refrattari al tempo umano e che segue, invece, le regole della disumana reclusione. “Il folle ricoverato aveva presso di sé: giacca, calzoni, camicia, cinghia, 1 portafogli con tessera, 1 accendisigari, £ire 60″. “Il folle ricoverato aveva presso di sé: cenci”. “Dichiaro io qui sottoscritto Oreste R. di N. N. di essere venuto di spontanea volontà in questo ospedale per essere curato – 7 luglio 1949”. Libri, schedari, fotografie, cartelle cliniche circa sessantamila. Intorno c’è il patrimonio culturale immateriale dell’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, quello dei beni non tangibili, quello delle storie di chi vi è stato rinchiuso. Immateriale, eppure ancora vivo, ma che rischia di andare perduto, ingoiato dai deficit delle strutture ormai decadenti e delle istituzioni distratte.
LA PROPOSTA – Un luogo non di conservazione cristallizzata, ma di narrazione “aperta”, per ripercorrere un pezzo di storia dimenticata della città in una geografia che fu di dolore. È questa l’idea progettuale venuta fuori durante l’incontro della tre giorni “La città degli specchi”, tenutosi venerdì scorso presso l’ex manicomio Bianchi. Creare nel complesso di 220mila metri quadrati, in cima alla collina di Capodichino, a ridosso dell’aeroporto, ora di proprietà della Regione Campania e gestito dall’Asl Napoli 1 Centro, un museo di nuova generazione ed un polo culturale interdisciplinare. “Un museo liquido, cioè concepito per instaurare relazioni con ogni visitatore – spiega Isa Bocciero, docente dell’Università Suor Orsola Benincasa, la cui Unità sulle Topografie Sociali ha promosso i seminari di studio sugli ex manicomi campani, tra cui anche il Santa Maria Maddalena di Aversa e il Vittorio Emanuele II di Nocera Inferiore -. L’intenzione è quella di una funzionalizzazione spaziale, modificabile in qualunque momento, che si curvi alle esigenze del racconto e capace di captare flussi di visitatori programmabili, non solo il turismo scolastico e culturale. Il tutto avrebbe costi bassissimi sia di realizzazione che di gestione”. Insomma, uno spazio fluido dove la memoria interviene nella contemporaneità, dove il passato interroga il presente. In che modo? “È nostra intenzione – illustra la professoressa -, accanto all’esposizione che può essere anche di tipo tradizionale, elaborare zone di fruizione reali e virtuali. Quindi partire dal web, da archivi online consultabili dalle scuole con tutti i collegamenti interdisciplinari, per arrivare ad un allestimento museale con percorsi nei quali ricostruire i cosiddetti paesaggi sonori. Parliamo di ambienti immersivi dove riprodurre i rumori del luogo e poi man mano aggiungere una serie di suoni. Non di certo le urla “scenografiche” di chi ha abitato questi posti, ma ad esempio l’esatta sequenza in cui venivano chiuse le porte degli stanzoni. Spesso, infatti, i musei sono incapaci di accogliere le istanze di pubblici diversi. E all’istanza si è risposto con la spettacolarizzazione che non è una soluzione, perché alla fine in questi musei interattivi si entra con lo spirito con cui si gioca ad un videogame, tradendo la stessa funzione museale”.
I PROTOCOLLI D’INTESA – Una sfida ambiziosa che ha adesso come punto di partenza le due convenzione fresche di firma tra il Benincasa, il Polo Archivistico Sanitario del Bianchi e il Centro Studi “Le Reali Case dei Matti” del Santa Maria Maddalena, finalizzate al restauro e alla valorizzazione del patrimonio archivistico e bibliografico dei due ex manicomi. “Ovviamente il museo liquido si alimenta dei risultati della ricerca, non si prescinde dagli archivi ma poi si deve scendere sul territorio – precisa Bocciero -. Uno degli obiettivi di questo tipo di musealizzazione potrebbe essere anche quello di ricreare indotti economici diversi ma comparabili all’impatto che c’erano nel passato dove i manicomi, così come le carceri, generavano produttività. Le persone non ci sono più, ma resta la loro polvere, la ruggine dei letti da riconvertire in un cantiere culturale che possa attrarre e stimolare la riqualificazione dell’area”. Il museo, quindi, come itinerario dell’esperienza. Conservare, trasmettere ed attualizzare le tematiche della salute mentale, restituendo al visitatore le suggestioni emozionali e visive di cui il Bianchi è portatore, testimone di come un tempo l’ordine costituito abbia lavorato per espellere dalla società tutto ciò che era considerato “devianza” dal paradigma di normalità. La malattia mentale considerata crimine, gli internati privati dei diritti civili. L’idea di un manicomio a padiglioni staccati nella città di Napoli è del 1883, poi totalmente concretizzatasi nel 1909. Sopravvissuto alle frequenti incursioni aeree nemiche durante la seconda guerra mondiale e all’occupazione delle truppe alleate dal 1943 al 1946, l’ospedale continua la sua funzione fino alla legge 180 del 13 maggio 1978, ma la completa dismissione si è conclusa soltanto nel dicembre del 2002
MEMORIA E FUTURO – “Il futuro del Bianchi è quello del recupero della struttura e del reinserimento nel tessuto lì dove è nato – si augura Anna Sicolo, direttrice del Polo archivistico sanitario, dal 1981 prima medico e poi responsabile del complesso e di ciò che resta -. Quale la via? Dipende dalla nostra tenuta, dalla nostra resistenza. Noi ce la mettiamo tutta e puntiamo in alto. Di certo chi amministra ha il dovere di prevenire l’ignoranza e l’abbandono. Non ci sono farmaci per guarire dall’ignoranza, ma ci sono modalità di intervento preventivo, c’è il rispetto della memoria che insegna”.
Claudia Procentese