Quelle ‘Signore Fortunate’ che non salvano Napoli

C’è chi c’ha Manhatttan, le luci della notte, i taxi che li fermi con un fischio come il meglio pecoraro, Carry, Miranda, Charlotte e Samantha, i cocktail con la ciliegia candita dentro, le gonne di tulle

E poi ci siamo noi, che c’abbiamo il Salone Margherita –ma non solo a onor del vero- e una tribù eccitata e vociante di mogli di, figlie di, amanti di, determinata a rendere indimenticabile a suon di cheese l’ennesima delle serate organizzate per il sollazzo della borghesia cittadina. L’ultima, in ordine di tempo, è una festa a tema cowboy che ha visto brillare in tutto il loro ialuronico splendore l’altra metà del cielo della Napoli bene: un tripudio di frange, camperos, cappelli col laccetto sotto, camicie annodate in vita mi raccomando abbastanza in alto che si vedono gli addominali.

Tale raduno di bovari e pistoleri, di cui i quotidiani cittadini pure restituiscono con chirurgica precisione volti e nomi dei partecipanti, aneddoti segretissimi, sorrisi e calze contenitive è, non diversamente da analoghe occasioni di festa, assolutamente, incontrovertibilmente, il male. E lo è al punto da far rimpiangere il trash quello vero, quello certificato, quel male che tutti a primo acchitto siamo pronti ad individuare come tale.

Quello che passa per la volgarità, per l’assenza di scolarizzazione, per la musica neomelodica sparata dai bassi a millemila decibel, per le unghie straripanti swarovsky, per i capelli posticci, attaccati con extension di pessima qualità, per i passeggini usati come teste d’ariete da mamme quindicenni e tatuatissime. Nessuno di fronte allo spettacolo di uno struscio in via Toledo si sentirebbe di identificare quel passeggio sciatto come l’immagine rappresentativa della città, un’immagine tuttavia terribilmente autentica o se si preferisce autenticamente trash che affonda le sue radici in quella che Pasolini chiama la subtopia, non un luogo altro, ma un luogo sotto, che lascia poca speranza di salvezza.

Ed è proprio per questo che quelle 50enni strizzate nei bustini di Calamity Jane sono il male: perché appartengono a una fascia di popolazione baciata dai privilegi (meritati o arraffati che siano) privilegi nei quali sguazzano senza tuttavia metterli a frutto, senza provare a salvare la città nella quale si dicono fieri di abitare, senza produrre un minimo di cultura, ma reiterando all’infinito il rito collettivo e sterile dei salotti, delle ville, delle piscine, delle barche. Quelle signore di quella Napoli bene, ribattezzate da un imbarazzante -e fortunatamente breve- esperimento televisivo ‘lucky ladies’ mettono in condivisone col resto del mondo solo la loro noia, la ricerca di un’ eterna giovinezza, denti sbiancati, pashmine, punturine, vitamine, portando in scena su un palcoscenico triste e squallido uno spettacolo che risulta decisamente poco credibile, che le vede affannarsi prima e scannarsi poi per aggiudicarsi la mela della più bella del creato.

La pelle tesa come una corda, le nostre signore di Napoli si dimenano per far sembrare autentico un divertimento che non è altro che un tentativo di esorcizzare la paura della morte, nella migliore della tradizione del travestimento. Sono ricche, linfodrenate, annoiate, fanno beneficenza, ostentano un nulla guarnito di piume e –quel che è peggio- credono di essere la risposta positiva a una città marcia, in declino, la città delle periferie, sommersa dal pattume e amministrata dalla criminalità organizzata, quando in realtà ne costituiscono solo l’altra faccia. Quella pulita, fresca di piega, che rifiuta l’idea di potervi essere assimilata, ma che in fondo sa di essere costituita della stessa carne, quella lercia e inerme, che non divide ma somma, assolvendo l’acquisto di una borsa da mille euro con una donazione all’ospedale pediatrico.

Insomma, queste reginette dei salotti sono tutte lisce, indistinguibili l’una dall’altra, strizzate in vestiti costosissimi, tenute in piedi da tonnellate di lacca con poche altre preoccupazioni oltre la scelta del dog-sitter o la fodera delle poltrone del terrazzo. Sono brutte e fanno paura, quella paura generata dall’ignoranza, dalla violenza, dal privilegio ottenuto senza la fatica con in più la responsabilità di non aver contribuito, nonostante le possibilità, a rendere la nostra città migliore, a liberarla –o almeno a provarci- dall’altra faccia di se stesse.

Sarah Galmuzzi

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