Facciamo luce su Santa Chiara – quella giusta, però

Sul web impazza un dibattito che ha al centro il chiostro di Santa Chiara:  come è possibile che versi in questo stato? Quando abbiamo iniziato a dimenticarci di un bene tra i più preziosi del nostro patrimonio?

Appena qualche settimana fa questo quotidiano lanciava una bella iniziativa: quella di conservare per tutto l’anno, al di là delle feste natalizie, la suggestiva illuminazione di piazza Plebiscito, cuore pulsante della vita e del turismo, luogo di attrazione  e di ritrovo a un tempo.

 

A distanza di una manciata di giorni torniamo a parlare di luci e di patrimonio artistico: ma la nostra attenzione si porta su un luogo che appare un po’ dimenticato, quasi estraneo ai massivi flussi turistici cui siamo abituati negli ultimi tempi, eppure posto caro alla città, amatissimo dai napoletani: il chiostro di Santa Chiara. Il meraviglioso giardino maiolicato è in questi giorni al centro di un seguitissimo post scritto da Bruno Fermariello su facebook, post che a suon di like e condivisioni sta facendo il giro del web.

 

Fermariello, apprezzato artista e animo sensibile ci racconta, in buona sostanza, quello che è sotto gli occhi di tutti da anni (sin dal 2003), ma incomprensibilmente tralasciato, dimenticato, ignorato: accende la luce –è davvero il caso di dirlo- sui lavori di restauro che hanno interessato (e che dovrebbero essere ancora in corso) del chiostro maiolicato; insomma pone domande, chiede risposte.

 

E lo fa da cittadino, invocando in buona sostanza da un lato il ripristino del pergolato, parte integrante del progetto del Vaccaro (risalente alla seconda metà del ‘Settecento) e dall’altro chiedendo l’eliminazione di un sistema di illuminazione radente –quello realizzato nel 2003 appunto, dalla Giunta Iervolino e salutato con incomprensibile entusiasmo- che mortifica le maioliche del chiostro, gettando una luce quanto mai sinistra, oltre che ‘giallo maionese’ sulle preziose mattonelle.

 

Visitato in un pomeriggio d’inverno, il chiostro appare più o meno in questo stato:

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E viene subito da dirsi che nella scellerata commissione che ha deliberato per quel tipo di illuminazione non doveva esserci nessuna donna, che noi femminucce lo sappiamo bene quanto una luce radente e posizionata dall’alto faccia comparire imperfezioni anche sulla più levigata delle superfici (figuriamoci su mattonelle di cotto che stanno lì da secoli). Ma oltre al posizionamento, anche il tipo di illuminazione in sé appare infelice visto il futuristico effetto che  produce. Indecisi se richiami alla mente più una SPA di ultima generazione o quella inquietante segnaletica luminosa presente a bordo degli aerei, siamo concordi su però su un punto: è veramente orrenda.

 

Quanto alle colonne, pure qui le foto si commentano da sole:

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il loro decoro era stato immaginato per un piacevolissimo gioco di rimbalzo con la natura, quella vera. Adesso sono spoglie, defunte letteralmente, cioè private della loro funzione originaria, quella cioè di sorreggere e intrecciare  i rami di un qualsivoglia pergolato. Il glicine è carogna, siamo d’accordo. Ma almeno mettiamoci un’altra cosa, non può certo restare così spoglio, nudo, privando oltretutto il progetto originario di uno dei suoi tre elementi fondanti (architettura, decoro, natura).

 

Ma perché, ci si chiede, perché il chiostro versa in questo stato di abbandono? Congelato in un tempo morto, che non ne esalta le bellezze, ma piuttosto ne mortifica gli aspetti principali? Come è stato possibile dimenticarsi di una delle perle più preziose del nostro patrimonio artistico? Perché i turisti non ci vanno più? Come è possibile che nella scorsa dozzina d’anni nessuno abbia ritenuto di intervenire per migliorare, conservare, ripristinare, valorizzare? E soprattutto, cosa significa esattamente valorizzare?

 

Le domande sono tante, il dibattito è aperto.

                                                                                                                                                           Sarah Galmuzzi

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