Cassazione choc, licenziati operai del finto Marchionne impiccato: uno si incatena

Gli ermellini ribaltano il verdetto d’appello sul reintegro dei 5 lavoratori della Fca di Pomigliano d’Arco, che inscenarono l’impiccagione del manichino dell’ad. Tra loro Mimmo Mignano, che si è incatenato davanti casa del ministro del Lavoro Luigi Di Maio, versandosi benzina sul capo

Verdetto choc della Cassazione. I giudici annullano il reintegro di cinque operai della Fiat licenziati perché, nel 2014, inscenarono il finto suicidio dell’ad Sergio Marchionne davanti ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Una protesta attuata a seguito del suicidio, vero, di una cassaintegrata. I lavoratori furono cacciati dall’azienda ma la sanzione, confermata dal tribunale di Nola, venne annullata dalla Corte d’appello di Napoli che ordinò il reintegro, escludendo la giusta causa. Ora la Suprema Corte, decidendo nel merito, ha accolto il ricorso della Fca e detto sì ai licenziamenti ritenendo “travalicati i limiti della dialettica sindacale”.

Uno dei cinque operai licenziati, Mimmo Mignano, si è incatenato davanti casa del ministro del Lavoro Luigi Di Maio, a Pomigliano. L’uomo si è cosparso la testa con una bottiglia di benzina. Le forze dell’ordine lo hanno bloccato e lo hanno soccorso.  Mignano è stato condotto in ospedale con forti bruciori agli occhi. Di Maio si è recato in serata dall’operaio, ricoverato presso l’ospedale di Nola.

 

DAL REPARTO CONFINO ALL’ULTIMO VERDETTO  –  La storia dei cinque ribelli Fiat è un ritratto esemplare della classe operaia al tempo della crisi e delle riforme del mercato del lavoro. Mimmo Mignano, Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore: sono quelli che piantano grane e contestano le scelte aziendali. Sono gli “ingestibili” spediti al reparto confino dell’interporto di Nola, un capannone a 20 km dalla fabbrica di Pomigliano. Tra loro c’era Maria Baratto, che il 21 maggio del 2014 si tolse la vita nel suo appartamento di Acerra. Da 6 anni viveva in cassa integrazione, ad 800 euro al mese. È dal quel gesto partì la protesta. Il 5 giugno i contestatori esposero il manichino impiccato di Marchionne, a terra gettarono indumenti di lavoro imbrattati di vernice rossa, accanto una finta lettera di pentimento del manager, in cui chiedeva di riportare a Pomigliano i 316 «deportati» a Nola e si scusava per i suicidi. E cinque giorni dopo la replica, con il funerale del fantoccio.
Passarono una decina di giorni e la Fiat licenziò i dipendenti, tutti iscritti al sindacato Sì Cobas. Gli operai ricorsero al tribunale di Nola, ma in primo grado vinse l’azienda. Il colpo di scena nel giudizio alla corte d’appello di Napoli, che nel 2016 decise il reintegro, giudicando le manifestazioni un esercizio del diritto di critica tramite «una rappresentazione sarcastica priva di violenza». Ma la ora la Cassazione sancisce il nuovo ribaltone. Secondo la suprema corte, la satira non può «esorbitare la continenza», attribuendo al suo bersaglio qualità «disonorevoli» , «riferimenti volgari» e «infamanti». «Le modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori – scrivono gli ermellini della sezione lavoro – hanno travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile» , con «un comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro». I giudici di ultima istanza ravvisano un errore di diritto nel giudizio di secondo grado, e affermano che gli operai superarono il principio del «minimo etico» nell’attività sindacale. Alla vicenda si era ispirato il brano “Una vita in vacanza” del gruppo lo Stato Sociale, arrivato secondo all’ultimo Festival di Sanremo. Sul palco dell’Ariston, i musicisti si erano presentati con i nomi dei cinque operai appuntati sulla giacca, in segno di solidarietà. I nomi di lavoratori costretti ad una “vita in vacanza”, ma forzata. Dopo il reintegro, i cinque erano stati tenuti per due anni fuori dall’azienda, anche se a salario pieno. Adesso non avranno più neanche quello.
Gianmaria Roberti

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