Il Grande Reset e la maschera del Coronavirus

La pandemia ha creato il contesto per la grande trasformazione economica e sociale del secolo

Premessa

L’ipotesi avanzata in questo articolo non si basa sull’idea di un complotto, ma sulla visione del futuro che il World Economic Forum di Davos propaganda a chiare lettere sui propri media, con l’intento di avviare un Grande Reset nell’economia, nella gestione delle risorse naturali e nell’organizzazione dei processi decisionali dei Paesi di tutto il mondo (si vedano gli articoli e le interviste pubblicate, di recente, sul “Time” https://time.com/collection/great-reset/ e sullo stesso sito internet del Forum di Davos, https://www.weforum.org/great-reset/ e https://www.weforum.org/great-reset#articles).

Il messaggio qui riportato è molto chiaro: la pandemia ha creato il contesto e l’opportunità per la grande trasformazione economica e sociale del secolo. Se ne riportano, qui di seguito, alcuni stralci tradotti dall’inglese:

         

Contesto

“La crisi del Covid-19 – insieme ai disagi di ordine politico, economico e sociale che ha causato – sta cambiando dalle fondamenta il contesto tradizionale dei processi decisionali. Mai come ora, in un contesto globale di preoccupazione per la vita, per i mezzi di sostentamento di ognuno e per la salute del pianeta, le incongruenze, le inadeguatezze e le contraddizioni di più sistemi – da quello della salute a quello finanziario, energetico ed educativo – sono venute allo scoperto. I leader di tutto il mondo si trovano ad uno storico crocevia, tra decisioni da prendere per le esigenze più immediate e incertezze nel medio-lungo periodo”.-           

L’opportunità

“Proprio perché stiamo per accedere ad un’opportunità unica di dare una forma alla ripresa, questa iniziativa [il Grande Reset] offrirà idee per contribuire ad orientare coloro che si apprestano a determinare il futuro delle relazioni globali, la direzione delle economie nazionali, le priorità delle società, la natura dei modelli economici e la gestione dei beni comuni globali. Prendendo spunto dalle grandi visioni e competenze dei leader coinvolti tra le comunità del Forum, il Grande Reset ha tutta la portata necessaria per poter gettare le basi della costruzione di un nuovo contratto sociale che onori la dignità di ogni essere umano”.

Il neoliberismo ha sempre ragione. Non si discute

Esiste già una vasta letteratura sugli effetti che la gestione di questa pandemia ha avuto sull’economia. Ciò che invece è poco noto ai più, perché rimasto fuori dai riflettori della stampa e dell’informazione, dalla dichiarazione della pandemia in poi, è che, secondo le stime dei principali istituti bancari mondiali, l’economia globale era già in grave sofferenza e sull’orlo di una recessione ben prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria. Quest’ultima ha, di fatto, offerto il teatro per una grande operazione di orientamento del consenso: nascondere il crack dell’economia da un lato e, dall’altro, ridisegnare la gestione delle strutture fondamentali della società secondo le prospettive più congeniali al mondo di Davos.   

Come cercherò di mostrare in questo articolo, a partire dalla seconda metà del 2018, l’economia mondiale ha cominciato a mostrare forti segnali di rallentamento che si sono aggravati nel corso del 2019.

La cosa non deve stupire più di tanto. Dalla fine degli anni Novanta in poi, abbiamo avuto un susseguirsi ciclico di crisi economiche di diversa natura e dimensioni, ma ad intervalli ravvicinati, come viene riportato efficacemente in una breve ricostruzione (dagli anni ’90 al 2010-11) fatta dalla Consob (http://www.consob.it/web/investor-education/le-crisi-finanziarie#anni_90).

Vale la pena, qui, ricordare brevemente come, in particolare, la gravità della crisi dei mutui subprime (milioni di famiglie insolventi perché impossibilitate a pagare rate dei mutui delle case dai tassi di interesse sempre più alti, pesante caduta dei redditi e dei livelli di occupazione sia negli USA che nella UE) spinse molti economisti e intellettuali, a cavallo tra il 2008 e il 2009, a rimettere in discussione il neoliberismo finanziario, l’accumulazione speculativa di capitale in poche mani e l’assenza di forti economie pubbliche in grado di stimolare l’economia reale oltre che una maggiore redistribuzione delle ricchezze. Nei dibattiti sulla crisi finanziaria ed economica di quegli anni, ritornava vincente il modello keynesiano contro i lupi di Wall Street, il ripensamento dei modelli di formazione delle classi dirigenti oltre che degli economisti*.

Nel giro di pochi anni (2009-2016), si è avuta, in diversi ambienti, la percezione diffusa che nulla poteva essere più come prima e che fosse finalmente arrivato il momento di mettere in pratica una robusta alternativa economica al neoliberismo (e alla teoria del mercato in grado di autoregolarsi e produrre ricchezza). Ma si è trattato di una parentesi che si è chiusa ben presto. E pare che non ci siano volontà politiche influenti per far sì che questa si riapra. Lasciando da parte tentativi di rivoluzione socialista – al momento, appaiono lontani – quello che si vuole impedire è che il modello neoliberista venga, comunque, messo in discussione. In questo senso, il nemico ora più temuto dal neoliberismo è un’idea social-liberale di capitalismo che possa generare un modello di società quantomeno più accettabile per la maggioranza. Idee che, in altre parole, possano ispirarsi proprio a John Maynard Keynes e William Beveridge, per fare i due nomi più celebri del riformismo liberale britannico della prima metà del Novecento.

Non a caso, il 31 ottobre scorso, annunciando un nuovo lockdown di un mese per il Regno Unito, il premier Johnson ha ripetuto il noto slogan di Margareth Thatcher: “There is no alternative”. A tal proposito, vale la pena citare quanto scrive Mark Fisher in Realismo Capitalista: “Gli anni Ottanta furono il periodo in cui per il realismo capitalista si lottò fino a riuscire a imporlo; anni in cui la dottrina thatcheriana del ‘there is no alternative’ si trasformò in una spietata profezia che si autoavvera”. Se un’alternativa al neoliberismo non esiste, appare evidente che quando c’è un intoppo, come nel caso di una recessione economica o, quantomeno, di un forte rallentamento dell’economia, bisogna trovare il modo di venirne fuori senza intaccare il funzionamento del sistema e i suoi principi di totale deregolamentazione dell’economia. Ed ecco perché il Grande Reset si presenta come un’importante chiave di volta.

Se, dunque, l’occultamento di questa crisi economica facesse parte del progetto di Grande Reset del mondo, quella che dovrebbe essere la grande occasione di cambiare tutto dopo la cosiddetta crisi dovuta al Covid-19, bisognerebbe pure iniziare a verificare quali saranno i cambiamenti e quali gli attori principali di questo processo.

Il Forum di Davos parla chiaro. Il Grande Reset ha l’ambizione di imprimere un radicale e ampio cambio di direzione: dalla conversione all’economia green alla progressiva digitalizzazione del lavoro, dei movimenti delle persone e dell’economia dei servizi, dal problema del controllo dell’informazione e della cosiddetta disinformazione alla ridefinizione dei processi decisionali in ambito politico e amministrativo (e la mortificazione degli istituti parlamentari in favore di un maggiore potere degli esecutivi potrebbe far parte di questo disegno) fino ad arrivare al problema di un nuovo riassetto nella gestione delle risorse naturali, dei sistemi sanitari ed educativi in tutti i Paesi del mondo.

Gli attori principali di questa grande svolta saranno sempre loro: le grandi Corporations multinazionali, quelle di cui si parla, per esempio, nel documentario The Corporation, tratto dall’omonimo libro di Joel Bakan (vedi il trailer qui: https://www.youtube.com/watch?v=exY4u0XsEGI) mentre il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sarà il braccio operativo, quello che fornirà denaro in prestito, soprattutto ai Paesi più poveri, per avviare il Grande Reset, come ha bene illustrato l’economista Peter Koenig (vedi https://www.globalresearch.ca/imf-wef-great-lockdown-great-transformation/5721090 e un riassunto in italiano https://www.money.it/borse-globali-capitalizzazione-record-vaccino-coronavirus).

Ma cosa c’entra il Coronavirus con il Grande Reset? È davvero credibile la versione secondo cui la comparsa del Covid-19 sia stata una specie di rivelazione per tutti coloro che si riuniscono a Davos? Davvero questi si sarebbero svegliati adesso e avrebbero capito che il mondo, così com’è, non va bene?

La narrazione distorta dell’epidemia da Coronavirus ci dice piuttosto il contrario, ovvero che le élite del mondo economico e finanziario hanno dato inizio a una dura lotta di classe contro il pericolo di una crisi di sistema e del consenso di cui questo necessita. È la lotta di classe di chi sta in alto contro chi sta in basso a giustificare la gestione politica emergenziale del Coronavirus, a giustificare la noncuranza di fronte a milioni di posti di lavoro bruciati e l’indifferenza di chi, pur credendo in un alto tasso di mortalità del Covid-19, ha accettato pacificamente che tanti lavoratori continuassero ad essere obbligati a recarsi sul posto di lavoro in zone dichiarate “rosse” (ma se era così pericoloso, perché costoro avrebbero dovuto morire?). È questa lotta di classe a premere per la chiusura delle scuole, a imporre il controllo sociale esercitato tramite la paura e la delazione, tramite il linguaggio militaresco che viene usato per parlare del Covid-19 e l’utilizzo squadristico delle forze dell’ordine che, tante volte, abbiamo tristemente visto abusare del loro potere in questi ultimi mesi.

In altre parole, la bomba sociale di milioni di disoccupati e di poveri in tutto il mondo, non deve scoppiare in seguito all’ennesimo crack dell’economia, ma deve essere, con le buone o con le cattive, repressa. La narrazione distorta della pandemia è il grande strumento di egemonia che permette di neutralizzare tutti gli argomenti contro il sistema neoliberista, di far passare in secondo e terzo piano tutte le notizie che possano mettere in luce le falle del sistema. Al contrario, nessuno può essere messo sotto accusa se, adesso, c’è il Coronavirus: la disgrazia ha colpito tutti, ma nessuna parola deve essere pronunciata sui diversi mezzi di cui ognuno dispone per uscire da questa crisi. Una crisi che, secondo la narrazione corrente, dall’ambito sanitario ha investito quello economico e sociale, come se prima stesse andando tutto a gonfie vele. Si tratta di una narrazione distorta perché, come mai era avvenuto prima, la narrazione politica e mediatica di questa pandemia si discosta radicalmente dalla specifica questione sanitaria, com’è stato chiaramente dimostrato in un’inchiesta pubblicata dalla rivista «Città Future» (https://bit.ly/2THZid3)**.

Segnali ignorati di una crisi economica imminente

Non andava tutto a gonfie vele prima dello scoppio della pandemia. Come detto in precedenza, infatti, l’economia mondiale, pur tenendo conto delle significative differenze tra diversi Paesi, ha iniziato a rallentare da tempo. Dalla metà del 2018, lo stesso FMI ha iniziato a rilevare questa tendenza negativa e, nel suo rapporto del 15 ottobre 2019, ha evidenziato come i livelli di indebolimento dell’economia globale e la crescita del numero di imprese indebitate e potenzialmente insolventi avessero già raggiunto quelli della crisi del 2007-08. Più avanti, ad Aprile 2020, quando la pandemia era ormai scoppiata, il nuovo report dell’FMI farà presente come la contrazione economica, dovuta anche agli effetti dei lockdown in tutto il mondo, sarebbe stata di gran lunga peggiore di quella del biennio 2007-08. Il che viene anche confermato dall’ultimo rapporto dell’FMI dell’Ottobre 2020: nonostante la rapida ripresa della Cina, l’economia globale resta ancora esposta a battute d’arresto.

Tra Aprile e Maggio del 2019, gli economisti Paul Krugman e Joseph Stiglitz mettevano in luce diverse possibili cause di una nuova, imminente recessione che avrebbe potuto colpire non soltanto gli USA, ma anche la Cina e l’Europa: le forti tensioni internazionali (cosa che ha provocato, in diversi momenti, l’innalzamento dei prezzi del petrolio e, di conseguenza, ha anche colpito l’economia tedesca basata sulle esportazioni) e le indicazioni negative di un certo numero di grossi titoli azionari venivano segnalate come potenziali concause di una prossima recessione economica insieme all’eventuale sgonfiamento di una bolla finanziaria in qualche settore dell’economia.

Nella sostanza, mentre l’informazione mainstream resta concentrata, da mesi, nel fare opera di terrorismo sulle persone in merito ad una malattia virale ampiamente gestibile e, generalmente, non mortale, nell’economia globale potrebbe essere scoppiato – e si preparava da tempo – uno tsunami di cui pochi parlano. Il securitarismo, le restrizioni estreme e, com’è avvenuto in Italia, i decreti di emergenza in violazione della Costituzione, servivano a mascherare non soltanto una sanità pubblica ridotta all’osso, ma, soprattutto, un sistema economico che, su scala globale, ha fatto crack o, comunque, aveva paurosamente rallentato da tempo.

Il problema è che questo tipo di economia non può permettersi di rallentare perché corre il rischio di bloccarsi del tutto, come le crisi periodiche di quest’ultimo trentennio dimostrano. Dato il grosso peso della finanza nell’economia, infatti, non appena un certo numero di imprese che hanno preso denaro in prestito risultano insolventi, i titoli di borsa crollano, perché l’investimento iniziale è andato perduto. E quando si scatena un effetto domino, ovvero quando la situazione si fa grave, soltanto lo Stato è in grado di riparare il motore per farlo ripartire con fondi pubblici.

Quello che avviene è già successo più volte: quando ci sono, i profitti sono dei privati (banche e istituti finanziari) che prestano soldi, quando si va in perdita, paga lo Stato, paghiamo tutti perché aumenta il debito pubblico, aumentano le tasse (tutt’altro che in senso progressivo), i servizi e le proprietà pubbliche vengono privatizzate, crescono disoccupazione e diseguaglianze sociali. Considerando tutto questo, è perfettamente lecito ipotizzare che anche la dichiarazione della pandemia che ha fatto poi scattare lo stato di emergenza sanitaria, abbia di gran lunga facilitato lo sblocco di fondi pubblici che sarebbero, comunque, arrivati, ma, forse, pagando un dazio, per alcuni, non sostenibile: rimettere nuovamente in discussione questo modello di capitalismo finanziarizzato e sregolato (per approfondimenti sulla finanziarizzazione del processo del capitale, vedi L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, pp. 36-76, Einaudi, 2015).

Per fare un esempio pratico dell’occultamento mediatico della recessione economica qui descritta, basta far presente il fallimento, nel solo 2019, di almeno 24 compagnie aeree (https://bit.ly/36xdBqT), un evento di dimensioni notevoli sul piano economico-finanziario che, singolarmente, non ha trovato adeguato spazio nei mezzi di informazione. 

Il caso più eclatante è stato quello della britannica Thomas Cook, fondata alla metà dell’800 e fallita proprio nella seconda metà del 2019. Il caso della Thomas Cook, al di là delle sue significative dimensioni, apre uno squarcio sui problemi di natura finanziaria che agitano il mondo del trasporto aeroportuale – e, di conseguenza il settore dei trasporti, del turismo e dei viaggi – da un po’ di tempo a questa parte. È interessante, infatti, leggere il parere del presidente di Alpitour Group, Gabriele Burgio, secondo cui il crack della Thomas Cook avrebbe avuto un effetto domino sull’intero settore: “Il sistema, cioè banche e hotel, penserà che questi business sono rischiosi. Già da settembre scorso si poteva intravedere questo epilogo, ma nessuno ha fatto qualcosa per evitarlo”. Sulla stessa linea si è espresso anche Nando Filippetti, presidente Astoi (Associazione Tour operator italiani): “C’è il rischio che gli albergatori e i fornitori pretendano sempre più garanzie e pagamenti anticipati dai t.o., soprattutto dai più piccoli. Stesso discorso anche per le agenzie di viaggi che si vedranno richiedere i pagamenti anticipati dai tour operator. Le banche, infine, potrebbero essere meno disponibili ad aprire linee di credito”. Quello che, nella pratica, avviene quando inizia a sgonfiarsi una bolla finanziaria (vedi https://www.lagenziadiviaggi.it/thomas-cook-le-ragioni-del-fallimento/ e https://www.lagenziadiviaggi.it/burgio-sul-crac-thomas-cook-il-sistema-ne-risentira/).

In misura minore, un più recente caso si è avuto anche in Italia con il fallimento della Air Italy, laddove Confindustria ha anche inserito, tra le possibili, recenti cause di aggravamento di bilancio di una compagnia aerea, l’acquisto dei Boeing 737 Max poi rimasti a terra perché non sicuri (due incidenti aerei in Indonesia ed Etiopia, 346 morti). Si tratta di un argomento a parte, ma, di fatto, esiste un contenzioso grosso tra la Boeing e le compagnie aeree di tutto il mondo che hanno acquistato questi nuovi modelli difettosi (https://www.hdmotori.it/2019/07/19/boeing-disastri-737-max-costo-5-miliardi/). Tra gli addetti ai lavori, a dire il vero, si iniziano a contare fallimenti di compagnie aeree dal 2017 e, in particolare, specializzate in voli a lungo raggio (per esempio, Air Berlin, Primera Air, WOW Air, XL Airways e Thomas Cook). Pare che questo modello abbia dato buoni risultati in Asia e in Oceania, ma in Europa “sembra essere stato supportato per larga parte dalla grossa crescita globale del mercato dell’aviazione avvenuta negli ultimi 5 anni, grazie soprattutto al calo del prezzo del carburante tra 2014 e 2015” mentre, dal 2017, con il nuovo incremento dei prezzi, molte compagnie sono state costrette alla chiusura (vedi https://www.volo-in-ritardo.it/news/2019/10/30/settembre-ottobre-con-lautunno-falliscono-le-compagnie-aeree e anche https://www.ilsole24ore.com/art/fallita-l-inglese-flybmi-e-decima-compagnia-aerea-che-salta-europa-ABYanKVB?refresh_ce=1).

Quando, col susseguirsi dei fallimenti, si è arrivati al mese di ottobre del 2019, la grave contrazione economica era ormai una realtà ben visibile anche nell’indice specifico Bloomberg per il settore (https://scenarieconomici.it/linee-aeree-si-attende-un-drammatico-fine-2019/).

 

Conclusione

Questo articolo non ha avuto la pretesa di illustrare esaustivamente e spiegare il complesso di ragioni che hanno determinato l’attuale crisi. I problemi trattati sono troppo vasti e in rapido, costante sviluppo per poter essere sviscerati in un singolo articolo. Quello che si è voluto mettere in luce è il seguente paradosso: l’informazione mainstream si concentra, in gran prevalenza, nel diffondere notizie, spesso terrorizzanti, su di un virus che, statistiche alla mano (vedi le fonti citate alla fine dell’articolo), ha un tasso di mortalità prossimo allo zero mentre è in corso una crisi economica che, secondo l’FMI, presenta caratteristiche anche peggiori di quella del 2007-08. Evidenziare questa grave disparità nel racconto di ciò che sta avvenendo, è stato, dunque, il principale scopo di questo articolo. Lo è stato soprattutto alla luce del dichiarato intento del Forum di Davos e, in parallelo, dell’FMI di avviare un Grande Reset, della cui natura si è accennato in questo articolo e nelle fonti riportate.

La novità, di portata storica, del Grande Reset sta nel fatto che, questa volta, una delle cicliche crisi del sistema viene utilizzata come opportunità per aprire nuovi settori economici e far sì che le multinazionali private possano trovare il modo per impadronirsi sempre più facilmente di beni e risorse comuni. Come questo potrebbe essere messo in pratica non pare un mistero: da un lato, cercheranno di fare pressione, di influenzare e utilizzare i governi facendo leva sul peso del debito da restituire mentre, dall’altro lato, queste pressioni agiranno anche nel senso dello svuotamento della prassi delle istituzioni parlamentari (in favore dei poteri esecutivi dei governi) oltre che della già deperita partecipazione democratica ai processi decisionali. La novità sta anche nel fatto che tutto questo sarà possibile attraverso il consenso stesso dei governati, finché non smaltiranno il veleno della paura, del terrore che è stato e che viene sapientemente inoculato.

L’utilizzo manipolatorio di Internet e dei mezzi di informazione è soltanto l’inizio. È probabile che, come già viene accennato nei piani del Grande Reset, si punterà, ancora più di prima, alle ennesime riforme dei sistemi scolastici e universitari, alla sottomissione del sapere medico e, più in generale, del sapere istituzionale-accademico, allo strozzamento delle istituzioni culturali libere, al funzionamento a singhiozzo se non proprio alla chiusura di numerose biblioteche e musei, al tentativo di sostituire definitivamente la storia con la narrazione. La narrazione di coloro che avranno la forza di imporsi.

Di fronte a tutto questo, e di fronte all’assenza di partiti politici che diano nuovamente voce ai diritti dei lavoratori e ad autentiche istanze di giustizia sociale, bisognerà continuare a resistere, ad usare la propria testa, a non abbassarla di fronte ai dogmi che, di volta in volta, ci vengono propinati, a non perdere di vista l’insegnamento di Pier Paolo Pasolini quando scriveva che il nuovo fascismo “è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo” (Il Potere senza volto, Corriere della Sera, 24 Giugno 1974).  

Antonio Polichetti Storico e Saggista

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