Operazione contro il clan Pagnozzi della Valle Caudina, da anni radicato a Roma

ROMA – Ci sono Domenico Pagnozzi (nella foto), condannato all’ergastolo per l’omicidio Carlino del 2001 e soprannominato “ice” per i suoi occhi di giaccio, e Massimiliano Colagrande, vicino all’estrema destra e coinvolto nell’inchiesta “Mafia capitale” tra i 61 arrestati dell’operazione “Tulipano” dei carabinieri del Comando di Roma. Gli arresti sono scattati in tutta Italia contro il clan camorristico dei Pagnozzi, operante in Valle Caudina ma da anni radicato anche nella Capitale. I Carabinieri del comando provinciale di Roma hanno anche messo i sigilli a negozi e società romane, immobili, ma anche rapporti finanziari e veicoli per un valore stimato di 10 milioni di euro. Per gli inquirenti si tratta forse “dell’ultimo capitolo del dominio romano del clan Senese”, la cosca di origine napoletana con cui i Pagnozzi hanno stretto un patto di sangue.

L’INDAGINE – Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, estorsioni, usura, reati contro la persona, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita, fittizia intestazione di beni, illecita detenzione di armi, illecita concorrenza con violenza e minacce, commessi con l’aggravante delle modalità mafiose e per essere l’associazione armata. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere arriva a conclusione di un’indagine che ha portato all’individuazione di un’organizzazione insediata nella zona sudest di Roma. Arresti e perquisizioni sono stati eseguiti in varie località di Roma e provincia, Frosinone, Viterbo, L’Aquila, Perugia, Ascoli Piceno, Napoli, Caserta, Benevento, Avellino, Bari, Reggio Calabria, Catania e Nuoro.
Il gruppo capeggiato da Domenico Pagnozzi, oggi detenuto al 41 bis, era conosciuto con il soprannome dei “napoletani della Tuscolana” ed era composto da criminali romani e campani. Una realtà ormai autoctona, a dispetto delle origini di “importazione”. Tra gli interessi c’era il controllo di alcune piazze dello spaccio della droga nella Capitale ricorrendo all’intimidazione e alla violenza, l’usura, che avrebbe gestito Andrea Costantino, arrestato nell’operazione di oggi. Il clan aveva rapporti di affari criminali con altre organizzazioni anche di tipo mafioso, alcune attive nella Capitale altre in Campania e Calabria. Tra questi il clan Perreca di Recale, nel Casertano, i clan napoletani dei Mazzarella-Formicola di (Napoli est), Amato-Pagano (scissionisti di Scampia) e quelli dell’area vesuviana come i Panico di Sant’Ananstasia e i Pesacane di Boscoreale. Ma anche  la ‘ndrina Albanese-Raso-Gullace di Cittanova e Laureana di Borello, i Molé di Gioia Tauro, i Pelle di San Luca a cui Pagnozzi risulta legato in quanto compare del latitante Antonio Pelle. Contatti sono stati documentanti con i Casamonica e il gruppo di Franco Gambacurta operativo a Monte Spaccato.  Tra gli arrestati ci sono anche Franco Gambacurta, Manolo Monterisi e Ferruccio e Guido Casamonica, entrambi indagati per episodi di recupero crediti con modalità estorsive.

IL BOSS E IL PATTO COI SENESE – Domenico Pagnozzi ha guidato l’organizzazione fino al suo arresto per l’omicidio del boss della Marranella Carlino, ucciso per ordine di Michele Senese che voleva vendicare la morte di suo fratello Gennaro, vittima di un agguato nel 1997. Secondo la Dda di Roma, proprio l’omicidio Carlino avrebbe sancito l’alleanza, rafforzatasi negli anni, tra il clan della Valle Caudina e la criminalità organizzata romana. Domenico Pagnozzi era stato già condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere e tentata estorsione nei confronti di un’impresa di Sant’Agata dei Goti, nel Sannio, avvenuta nel 1990. Era tornato in libertà nel giugno del 2005, beneficiando dell’indultino. Una delle periodiche misure di clemenza carceraria votate da centrodestra e centrosinistra su presunte basi umanitarie, che però aprono le porte del carcere anche a elementi della criminalità organizzata, come si vede. Pagnozzi successivamente era stato sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di Roma per otto anni. Gli inquirenti ipotizzano che il patto con i Senese prevedese un mutuo soccorso. Quando si dovevano compiere delitti a Roma, ci sarebbe stato uno scambio di favori tra i due con i killer in arrivo dalla Campania, pronti a smaterializzarsi subito dopo l’agguato. Nonostante gli arresti subiti, il clan Pagnozzi di San Martino Valle Caudina ha mantenuto un diffuso potere criminale sul territorio a cavallo tra le province di Avellino e Benevento, soprattutto nell’usura e nelle estorsioni. Con il declino, dovuto all’età ed alle condizioni di salute dello storico boss Gennaro Pagnozzi, detto “o’ Giaguaro”, le redini sono passate al figlio Domenico.

I BENI  – Tra i beni sequestrati il bar Tulipano, da cui prende il nome l’operazione, che si trova in Via del Boschetto, nel Rione Monti, a pochi passi dall’abitazione dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ma anche un ristorante di Via dei Vascellari a Trastevere, e un negozio di orologi di Via Barberini. Tra i dodici esercizi commerciali a cui sono stati messi i sigilli, anche due autosaloni e un locale notturno in zona Tiburtina. Alla lista si aggiungono 30 immobili di cui 28 a Roma e provincia, uno nell’Avellinese e uno a Isola di Caporizzuto; 72 veicoli, 20 società e 222 rapporti finanziari.  Una delle imprese sequestrate è la “Premier Energy Roma srl”, con sede a Montesarchio, in provincia di Benevento e uffici a Roma, attiva nel settore della distribuzione del gas. E’ riconducibile ad Annamaria Rame, moglie di Domenico Pagnozzi, che non è tra i destinatari dell’odierno provvedimento cautelare. Ma fu la Dda di Napoli a chiedere l’arresto della donna sei mesi fa, nell’ambito di una inchiesta su un riciclaggio internazionale di denaro che coinvolgeva anche un istituto di credito libanese. Il gip di Napoli rigettò la richiesta e i pm hanno fatto ricorso al tribunale del Riesame che si è riservato una decisione in merito. Secondo la procura di Napoli Annamaria Rame avrebbe assunto il ruolo di reggente del clan dopo la decisione di spedire il consorte al 41 bis.
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