Anna e Marco, riflessione di Luca Musella

Riceviamo e pubblichiamo integralmente

Anna, nome di fantasia, è ricoverata in una RSA di Firenze. Marco, nome di fantasia, è un familiare di un paziente psichiatrico. Questa è la storia della loro strana e bellissima amicizia.

Le botte che la vita ti può dare possono sortire vari effetti collaterali, ma il più delle volte si limitano a dividere gli “Uomini dai caporali”. Marco è Uomo, nel senso che guarda il mondo e cerca un modo per digerirlo. Anna, invece, è disperatamente attaccata a restare Uomo, nel senso che quel ventaglio di sentimenti e opportunità che ci distinguono dalle bestie, oltre all’uso del deodorante, è costantemente messo in discussione da un ergastolo burocratico. Magie dei social che, in mezzo a torte e selfie al mare, ha unito queste due sofferenze. Algoritmi dettati da destini opposti: lui si occupa di psichiatria come istinto auto-terapeutico per superare il trauma di avere un figlio con disturbi. Lei, pur senza avere disturbi, ha un curriculum di lungo degente psichiatrico ma più per indigenza e per disfunzionalità. Così, complice il medesimo campo d’interesse, hanno iniziato a commentarsi, scriversi, poi a sentirsi e infine si sono anche incontrati. È la stessa dolcezza che il destino ha portato via, che può spingere a provare altre forme di tenerezza. Così mentre “Anna avrebbe voluto morire”, era Marco “a volersela portare lontano”.

La sofferenza oscura pone davanti tante impotenze e, mano mano che si accetta un boccone amaro, eccone un altro sempre più grosso da ingoiare. Marco li ha affrontati tutti, con lucidità, ma anche con la strana capacità di dargli una valenza politica: come a voler trasformare il suo calvario di familiare, in una risorsa. Anna, invece, il calvario se lo è visto inventare dalla somma dei poteri burocratici che vedono nella assenza di Welfare e nel pressapochismo brutale di quel poco che ci sta, una spirale nella quale è entrata sana e ne è uscita tutta scassata. Anna è nata da una famiglia benestante. Il padre, graduato nell’esercito, ha imposto come molti suoi colleghi destini di transito ai figli: al seguito delle carriere itineranti dell’esercito. Si cresce così: due anni al Nord e due al Sud, poi a Roma ma senza creare legami stabili. È sbarcata a Firenze, laureata in Architettura, ed ha intrapreso la via di una precarietà esistenziale. Un litigio sulla eredità con le sorelle, molto comune del resto, ed è andata in tilt. Una debolezza che è luogo dello spirito, non solo della necessità, dove le origini della stessa propria disfunzionalità, che sia trauma o gene, perdono di senso: si diventa altro e lo si diventa per sempre. Forse si è depressa, oppure si è lasciata andare, fatto sta che ha avuto la stupida idea di farsi aiutare. Entrata nelle grinfie della macchina della bontà non ne è più uscita. Ha perso tutto: risparmi, casa, rapporti. Tutto. Poi è entrata in una RSA facendo, di fatto, la vita di una malata terminale o di una criminale, senza essere nessuna di queste due cose.

Le torsioni della cronicità sono le catene più solide delle nuove detenzioni burocratiche, dove molto al di la di colpe o malattie, è la disfunzionalità che trasforma queste esistenze in fine pena mai. L’ora d’aria che si trasforma in ora di lucidità: alle 18 ti viene somministrata qualche polverina miracolosa che spegne il cervello e manda a nanna. Si dorme 15 ore, si deambula poi, ma con il buio della mente, perché i fumi del farmaco annebbiano ogni sentire. Ergastoli chimici, oltre che di altro tipo, che accomunano esperienze diversissime, dalla malattia al carcere, ma con medesimo risultato: andarsene via di testa. Ma Anna, nella sua unica ora di lucidità, chiama a Marco e cerca di essere ancora viva.

Marco “cuore in allarme” non vuole capire che ogni operazione di salvataggio si basa sulla necessità di, oltre che tentare di salvare il naufrago, di non annegare appresso a lui. Così è entrato in una specie di ossessione, come se dopo aver ingoiato troppi rospi, non volesse ingoiare anche questo. Si prodiga, invia soldi, parla con associazioni o professionisti ma, almeno per ora, nessuna soluzione. Eppure, detto tra noi, basterebbe molto poco: una casa e una piccola rendita. Ma come?

(Per informazioni contattare AFASP Campania, nella persona del vice Presidente Raffaele di Francia che sta seguendo il caso).

Poi, visto che è la stessa burocrazia che la tratta da invalida, non gli potrebbe riconoscere una invalidità totale?  A sessant’anni, pochi denti e con le cicatrici del dolore impresse nel corpo, quale lavoro può cercare? Gli eserciti della bontà, poi, come azione speculare alle idiozie della burocrazia si trasformano spesso in ingranaggi che spingono ancora di più alla cronicizzazione.  Si interviene, vero, ma a gettone di presenza che, quasi sempre, viene erogato dagli stessi enti che riducono a pezzi l’individuo. Si deve entrare nelle categorie di questi scienziati per poter accedere a risorse economiche che possono aiutarti. Ma, sembra cinico dirlo, quando si è entrati in codeste tabelle spesso si ha molto poco da essere salvati. “Ad un morto non serve pagare una crociera”, diceva una mia vecchia amica. Anzi: in modo molto perverso gli eserciti della bontà guadagnano proprio laddove organizzando crociere per morti, impegnano meno personale e meno risorse possibili e senza lo spettro di dover misurare il loro lavoro.

“Anna bello sguardo, sguardo che ogni giorno perde qualcosa” è affidata ad un Amministratore di sostegno: l’ADS che, in molti casi, più che sostenere, amministra e drena risorse del sostenuto. Così negli anni tutti i soldi di Anna si sono liquefatti, ma senza che questo abbia portato alla agognata eredità ne, tantomeno, a verificare quali strategie concrete si potessero mettere in moto per evitare ad Anna i tormenti delle reclusioni.  Teoricamente è libera, ma a questa potenzialità non corrisponde una pienezza di responsabilità giuridica ed economica o un sostegno dignitoso per poter sopravvivere fuori dai manicomi. Marco tenta disperatamente di aggrapparsi al suo IO politico per elaborare strategie atte a costringere lo Stato ad occuparsi della esclusione e della sofferenza. Ferroviere in pensione ne ha fatto i binari della sua vivace vecchiaia.  Vede suo figlio spegnersi nella indifferenza della psichiatria totalizzante e della chimica e cerca di reagire, anche solo per non soccombere al livore che ha in corpo. “Perché alle tante belle parole delle associazioni e dei politici poi, davanti ad un caso come Anna, nessuno fa niente?” Perché le tabelle della bontà sono come un foglio Excel e un caso come questo non rientra in nessuna tabella. Così, per aiutarla, bisogna solo aspettare che impazzisca.

Luca Musella

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