Presentata la XXI edizione degli “Incontri di Archeologia” al polo partenopeo. Il neodirettore Giulierini: “Bisogna far uscire i contenuti culturali dal museo e dialogare con la città”. E riguardo ai fatti di Parigi e al difficile frangente internazionale commenta: “Il museo è un’occasione per riflettere su situazioni che si sono già verificate migliaia di volte e far sì che gli errori non si ripetano”
NAPOLI – Ci sono le favole. E poi c’è la storia. C’è chi, con lunghi discorsi tra il pratico e l’ovvio, ti racconta di un mondo che per guardare avanti deve inevitabilmente sganciarsi dal suo passato. E poi c’è chi mette da parte il “c’era una volta” e ti mostra i percorsi dell’umano, senza tanti giri di parole. Quest’ultimo fatto succede al museo. Non ci metti tanto ad accorgetene. Entri in quello archeologico di Napoli e lo sguardo è portato subito all’insù. Il soffitto alto spegne ogni condizionamento legato allo spazio ed introduce in una dimensione non più misurabile con i soli parametri tecnici. Te ne accorgi sì, quando prima o poi ti ritrovi di fronte a lui. Il “Gran Musaico Pompeiano”. Una mischia furibonda, un corpo a corpo violento, muri di scudi e lance, zoccoli impazziti, ventotto combattenti, sedici cavalli, Alessandro Magno senza elmo, in sella al suo destriero, travolge Dario III, con la testa avvolta in un copricapo, dritto sul suo carro che batte in precipitosa ritirata e travolge due soldati. È la disfatta del re persiano di fronte all’impeto militare del Macedone nell’avanzata che lo porterà fino ai confini dell’odierna Cina. È l’umiliante resa del monarca orientale, raffigurata nel mosaico datato I secolo a.C., composto da circa quattro milioni di tessere e che raggiunge i 5,82 metri per 3,13. Rinvenuto a Pompei nel 1831, decorava il pavimento dell’exedra posta tra i due peristilia della “Casa del Fauno”, una delle residenze più grandi e lussuose della città sepolta dal Vesuvio (3000 metri quadrati), così chiamata per la statuetta che ornava la vasca dell’impluvium. Nel 1843 fu distaccato e trasportato nel Real Museo Borbonico di Napoli con un viaggio particolarmente difficoltoso durato ben nove giorni, nel 1916 collocato qui a parete, come fosse un arazzo istoriato. Un quadro. Più che lo scatto del momento decisivo della battaglia in cui la vittoria si palesa ad uno dei due eserciti, appare agli occhi di chi lo guarda come un moderno storytelling cinematografico per i vari piani di sequenza che possiede, giocati attraverso un’articolazione prospettica in tre diversi punti di fuga che catapultano lo spettatore nell’evento tragico. Se sia ad Isso, oggi in Turchia, o a Gaugamela, nell’attuale Iraq, fatto sta che l’immenso tappeto di tasselli policromi è il racconto potentemente muto dello scontro tra i due sovrani, tra i due mondi, quello greco-macedone e quello persiano, tra Oriente e Occidente. E ieri diventa oggi.
L’INCONTRO E LA RIFLESSIONE – “Il mosaico di Alessandro Magno lo si può pensare come l’espressione dell’arte ellenistica, ma lo si deve pensare in funzione del dramma che si sta consumando oggi nel rapporto tra Occidente e Oriente. È così che il museo, oltre a quella artistica, esprime una funzione politica nel senso migliore del termine”. Il neodirettore dell’Archeologico partenopeo, Paolo Giulierini, attualizza. Nella saletta a piano terra, affollata da soliti affezionati e curiosi di passaggio che ascoltano senza risparmiarsi in domande, prima dell’esibizione del pianista jazz Gino Giovannelli, si presenta il calendario dei prossimi incontri di archeologia giunti alla ventunesima edizione. Ci sono anche Adele Campanelli, soprintendente Archeologia Campania, e Marco De Gemmis, responsabile del servizio didattica del Mann. “Abbiamo davanti i fatti tragici di Parigi – aggiunge Giulierini che, insediatosi il mese scorso secondo una procedura di selezione internazionale prevista dalla riforma Franceschini, è uno dei venti nuovi manager alla guida dei principali musei italiani ora divenuti autonomi -. Il museo è un’occasione per riflettere su situazioni che si sono già verificate migliaia di volte e far sì che gli errori non si ripetano. In un momento così doloroso e complesso, il dovere di ciascun museo è innanzitutto civico, cioè quello di ricordare che certe lotte, certi contrasti ci sono già stati, ma ci sono state anche crescite e attraverso questi esempi possiamo fornire un contributo concreto alla pace”. Tanti gli annunci di Giulierini, nell’ottica di un museo che «faccia uscire i contenuti culturali e vada a dialogare con tutti i quartieri della città e le situazioni di disagio, perché è un organismo vitale che non può autocontemplarsi: il vero padrone del museo è il cittadino, noi siamo al servizio della comunità». A dicembre la mostra curata dall’ex direttrice Valeria Sampaolo e dedicata ad Eracle “liberato”, un gioco di parole a significare che viene liberato dai magazzini, nel 2016 la riapertura delle sezioni egizia e Magna Grecia, della collezione epigrafica e dei giardini storici, in occasione della mostra a marzo di “Mito e natura” proveniente dal Palazzo Reale di Milano. Elenchi, date e promesse su cui, però, l’invito ultimo, fondamentale, è il far diventare quadro i dettagli. Come i pezzi del grande puzzle di Alessandro. Raccogliere, unire, fare l’umano. “Il museo ha una sorta di fil rouge – spiega il 46enne archeologo toscano -. Contiene oggetti realizzati da uomini nel mondo antico, fatti per altri uomini, recuperati poi da altri, conservati e infine fruiti da altri ancora. Questo intreccio di persone fa sì che la connotazione del museo debba essere essenzialmente fondata sull’uomo e non sull’oggetto. È evidente che qui l’oggetto è preponderante, ma conservare oggetti senza scopo sociale non ha, soprattutto in questo momento, alcun senso”.
PERCORSI DI SQUADRA – Il lavoro è di squadra, la stretta collaborazione con la Soprintendenza è fortemente riaffermata, “sfatando sterili polemiche che quest’estate erano venute fuori su conflitti o su contrapposizioni, lavoriamo tutti dalla stessa parte” punzecchia Giulierini. In attesa del giudizio del pubblico, la scommessa è conquistarlo con la qualità dell’offerta senza abbassare il livello dei contenuti. Come? “Non abbiamo bisogno di semplificare tutto, non è necessario svilire le cose per farle comprendere – risponde la soprintendente Campanelli -, è un’offesa ai nostri visitatori e, allo stesso tempo, perdiamo l’occasione per affascinarli. Ciò che ci proviene dal passato non va soltanto conservato, ma bisogna dargli un senso contemporaneo perché niente nasce per essere un monumento, altrimenti rischiamo che il nostro patrimonio diventi incompreso e quindi incomprensibile, non accessibile”. Storce il naso, la Campanelli, su alcuni metodi. “Non credo che la soluzione sia quella di una spinta alla ricostruzione tridimensionale – ci tiene a rimarcare – che spesso annoia il visitatore esperto e non, perché risponde ad una domanda non fatta. È come se vedessi già la soluzione di qualcosa che, invece, voglio capire come si sviluppa. Quello che, infatti, affascina dell’archeologia è il procedimento indiziario, la metodologia attraverso la quale si arriva a conoscere non la verità storica, che ci sfugge perché lavoriamo sul frammento, ma l’ipotesi più corretta per comprendere come questa realtà antica potesse essere configurata. Io non darei risposte a domande non fatte, al contrario tenterei di restituire spessore alle nostre esposizioni, in maniera tale da suscitarle queste domande”.
Il museo messinscena della storia. Come nel “Gran Musaico”. In fondo da qualsiasi parte lo si guardi, nel suo rimbalzo convulso e violento di spinte e controspinte, è un manifesto contro la guerra. Anche la nostra. Parcellizzata, sminuzzata, ma reale. Un palco dove non c’è favola, ma storia. Dove il fare l’umano, al di là dell’estetico, è un viaggio etico.
Claudia Procentese