Una riflessione di Luca Musella
“La cosa più difficile è capire di averla. Accettare di averla. Un mal di denti è evidente, non lo si nasconde. Chiami il dentista, se puoi. Con il male oscuro, invece, fai finta di niente. Poi, però, quando esplodi, quando procuri ferite a te stesso o agli altri, tutti si accorgono di te. Inizi la Via Crucis delle diagnosi fantasiose: uno psichiatra una volta mi disse che un disturbo psico affettivo non lo si nega a nessuno. Poi i ricoveri, il carcere, le strutture sanitarie, l’assenza di servizi. Un inferno nel quale rimani per sempre. Quel che resta di te si rifiuta di giocare a batti batti le manine o con la pasta di sale, ma non ci sta altro. Così ti spegni, ti aggrappi ai farmaci, alle piccole ossessioni…”
Lello è il padre di un malato. Nella stessa elaborazione del suo pensiero si sovrappone al figlio. Una prima persona che può sembrare sbagliata, ma rappresenta uno degli aspetti più complicati del disturbo psichiatrico, arrivando a poter essere come contagioso. Ha accompagnato il figlio in tutti i luoghi diversamente detentivi del mondo psichiatrico. Rabbia, disgusto, impotenza. Il figlio gli è accanto, vero: è come addormentato, ma almeno è vivo. Dall’insorgere del disagio, fino alla sua trasformazione in disturbo, mi racconta, entrano sulla scena tante latitanze con un unico scopo, spesso nascosto da una insopportabile buona fede, di cronicizzare.
Definire attraverso rigide formule la “sofferenza oscura” e, conseguenzialmente, elaborare unicamente formule chimiche per anestetizzarla è una delle tante forme di aggressione alle fragilità. Nelle sofferenze mentali, proprio per la loro complessità, la compulsione al farmaco trasforma queste esistenze di margine, in dipendenza chimica. Gli stessi centri di salute mentale, in molti casi, sono diventati dispensatori di psicofarmaci. Del resto, in carcere oltre il 40% dei detenuti assume pasticche miracolose. Anche le dipendenze, superate le fasi acute della astinenza, vengono affrontate somministrando farmaci. Sostituendo ad una dipendenza illegale, una industriale e prescritta. Sembra che l’abolizione dei manicomi abbia concettualmente traslato il contenimento dalla fisica alla chimica e abbia utilizzato sempre di più questo business per creare consumatori cronici di pasticche. “Nessuno nega l’utilità del farmaco, se inserito in un più ampio quadro di recupero e reinserimento sociale, il guaio è che le nuove scienze oltre al farmaco, prevedono solo altro farmaco”, conclude Lello.
“Mio marito ha avuto tre infarti. Il figlio quasi lo ha fatto morire. Trenta anni di violenze e soprusi, tutti senza senso. Gli ho domandato se voleva il peperoncino sulla pasta e quello mi ha conficcato una forchetta in faccia. O le strutture terribili del carcere e degli altri carceri, oppure in casa, con la famiglia che salta in aria ogni giorno di più. Adesso mio marito non vuole più vederlo. Non regge più. Così io mi divido tra lui e mio figlio. Finché vivo, ma poi?”
Vivere trenta anni di paura, di insonnia, di disservizi, di devastazione anche fisiche ha condotto la sua resistenza alla frutta. Il marito, dopo tre infarti e vari acciacchi, ha gettato la spugna: aspetta solo di morire in pace. Lei, invece, con una tenacia che è un misto di idiozia e amore, tenta ancora di fare qualcosa. Siamo fuori da un reparto di un ospedale, dove questo uomo ha subito il centesimo TSO. Il trattamento sanitario obbligatorio dovrebbe interrompere una fase acuta del disturbo, per poi indirizzare i pazienti verso una potenziale cura e potenziali strutture che lo prendano in cura. In realtà al TSO, spesso segue il nulla o altri TSO, i centri sul territorio fanno orari delle Poste e hanno ritmi e stili da burocrazia spenta, mentre queste malattie sono totalizzanti. Così è lo stesso universo della Sanità a dare chance, molto ridotte, solo a coloro che hanno disturbi meno gravi o che hanno famiglie più solide, mentre decretano la morte civile i malati più gravi e per le famiglie con pregresse difficoltà. Si salva, in pratica, chi si sarebbe comunque salvato. Così all’ergastolo bianco, ossia la delega totale ad entità astratte delle esistenze dei rei di reato decretati “folli”, che traslano la pena dalla responsabilità penale alla assai poco scientifica “pericolosità sociale”, come unica potenzialità dell’affrancamento da misure detentive. Reclusioni che, quindi, possono durare in eterno. Si aggiunge poi ergastolo grigio, ossia di coloro che entrati nelle perverse disfunzionalità del mondo della psichiatria, ne escono definitivamente distrutti. L’ergastolo contagioso è, invece, quello dei familiari: travolti e lasciati soli davanti allo tsunami della malattia. Il risultato è che spesso il familiare si ammala quanto il malato, crollando e bruciando esistenza, equilibri, amori e risorse. Una solitudine aggravata dalla crudeltà dello stigma, dell’essere visto come complice della follia, anzi spesso come la causa della medesima. Giudizi sommari, nei quali si aggiunge una nota di scherno e derisione ad esistenze già piagate dal dolore. Un fine pena mai che grammaticalmente diventa un fine pena forse, un fine pena solo dopo la morte, un fine pena a giorni alterni e che porta queste tre tipologie di ergastolo in un ambito meta giuridico, meta sanitario, meta esistenziale. La soppressione di ogni Diritto Umano.
(Luca Musella)