De Fusco: ” L’idea dello spettacolo mi è venuta pensando che sia il popolo russo che il popolo napoletano non hanno conosciuto la modernità”

SAN PIETROBURGO –  Sold out, commozione e sette minuti di standing ovation finale del pubblico russo al Teatro Aleksandriskij di San Pietroburgo (1.600 posti), per “Il giardino dei ciliegi”, di Anton Čechov, firmato da Luca De Fusco. E’ stato un trionfo per lo Stabile napoletano che ha scritto una importante pagina nella storia del nostro “nazionale” e in quella del teatro italiano in generale. Lo spettacolo, scelto dal Valery Fokin, regista e direttore artistico dell’ Alecsandriskij, è nel cartellone del “IX Mezhlunarolny Teatralvny Festyvalv Aleksandrinskij”, iniziato il 12 settembre e che terminerà il 5 ottobre. In scena, sul palcoscenico del teatro più antico dell’intera Russia, Gaia Aprea nel ruolo della protagonista Ljiuba, Paolo Cresta (Jaša) Claudio Di Palma (Lopachin), Serena Marziae (Dunjaša), Alessandra Pacifico Griffini (Anja), Giacinto Palmarini (Trofimov), Alfonso Postiglione (Pišcik), Federica Sandrini (Varja), Gabriele Saurio (Epichodov), Sabrina Scuccimarra (Šarlotta), Paolo Serra (Gaev), Enzo Turrin (Firs). Le scene sono di Maurizio Balò, i costumi di Maurizio Millenotti, le luci di Gigi Saccomandi, le coreografie di Noa Wertheim, le musiche originali di Ran Bagno. Vedendo lo spettacolo in terra russa, vivendo empaticamente la sincera emozione degli spettatori, che ha portato alle lacrime molti di loro nonostante la recitazione fosse in lingua italiana, si capisce ancor di più quanto profondo sia il legame tra la cultura di questo paese e quella mediterranea, che non hanno mai affrontato la modernità, e quanto corrisponda al vero accumunare la tradizione recitativa russa e quella napoletana tra le massime eccellenze attoriali. “Il giardino dei ciliegi” è ispirato ad alcune esperienze personali del suo autore e ha come tema centrale la decadenza dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia. La protagonista, Ljubov’ Ranevskaja, suberbamente interpretata da Gaia Aprea, dopo avere vissuto a lungo a Parigi in maniera dissoluta e lussuosa con il suo amante, fa rientro a casa e trova una situazione patrimoniale disastrosa. Per fare fronte ai debiti bisogna vendere all’asta il suo meraviglioso “giardino”. Affronta la situazione con apparente nonchalance nella fallace illusione, condivisa anche dagli altri membri della famiglia, che la vendita possa essere scongiurata. L’epilogo è scontato e inevitabile: il giardino viene venduto ed è acquistato da Lopachin, ricco commerciante figlio di un vecchio servo della casa, che farà abbattere i ciliegi per costruire dei villini. Nell’incipit della commedia è racchiuso lo spirito infantile, fanciullesco, incapace di adattarsi alla nuova Russia di Ljuba e della sua famiglia, primo fra tutti il fratello Gaev (Paolo Serra). Il sipario, infatti, si alza sulla stanza dei bambini dove, come tali, si ritrovano Ljubov’ e Gael, ingessati nei ricordi dell’infanzia e quasi infastiditi dal trascorrere del tempo che considerano una “cosa assurda”. Nel monologo, nel terzo atto, di Lopachin, interpretato in maniera maiuscola da Claudio Di Palma, è racchiuso il messaggio lanciato da Cechov i cui prodromi traspaiono dai discorsi fatti da Trofimov, l’”eterno studente” (Giacinto Palmarini) sui cambiamenti sociali in atto. Lopachin, ubriaco, racconta dell’asta e dice di essere stato lui a comprare la proprietà. Nelle sue parole c’è la sfrenata esaltazione perché si è finalmente appropriato del podere dove il padre era stato servo e la malcelata soddisfazione di cacciare da casa i padroni. Si avverte, però, anche il velo di tristezza che lo avvolge per la consapevolezza di avere recato dolore a Ljuba. Il crescendo che ha caratterizzato tutto il secondo tempo raggiunge l’acme quando, nel quarto atto, si chiude la “quarta parete”. I personaggi, a uno a uno, lasciano la scena lanciandosi nel vuoto dalla sommità della scala e compare Firs: sta male.
“La vita è passata-dice-eppure è come se io non l’avessi vissuta affatto. Sdraiamoci qua. Non ho neanche un briociolo di forza, non mi è rimasto niente, niente. Eh, rammollito che non sono altro!” Si sente un suono lontano, come dal cielo. E’ il suono di una corda di violino che si spezza: un suono triste che si smorza. Torna il silenzio e si sente solo, lontana, la scure che si abbatte su di un albero. Perfetta la regia di De Fusco, che tra l’altro, al pari di Cechov, ha avuto il merito di non giudicare i personaggi, di utilizzare un “lessico familiare”, come lui stesso lo ha definito, per non appesantirli e di rispettare la leggerezza con cui lo scrittore russo ha affrontato i tre temi fondamentali all’indomani della liberazione dei servi della gleba: il rimpianto e la nostalgia dell’aristocrazia per il passato e la sua incapacità di accettare i cambiamenti (Ljuba e Gaev); il pragmatismo della nuova borghesia che costruisce il suo presente con il senso degli affari (Lopachin); il rifiuto sia del passato che del presente da parte di una gioventù che sogna un futuro diverso preannunciando, in fieri, le idee bolsceviche (Trofimov). Bravi tutti gli attori. Suggestive e anche surreali, e non è una novità, la coreografia di Noa Wertheim, la scenografia “candida” di Maurizio Balò e le musiche di Ran Bagno. Perfettamente in sintonia tra il realismo e le trasfigurazioni poetiche le luci di Gigi Saccomandi e i costumi di Maurizio Millenotti. “Siamo molto contenti che voi siete qui e presentate il vostro spettacolo-ha detto Valery Fokin al termine della rappresentazione. Questo edificio è stato fondato da Carlo Rossi architetto italiano, 183 anni fa e oggi rappresenta il simbolo di due culture, quella napoletana e quella russa che si incontrano. Avete visto che al pubblico è piaciuto molto il vostro spettacolo e, nella replica di domani, sarà ancora meglio. Questo “Giardino dei ciliegi” non è stato abituale anche per noi. Conosciamo tante, tante versioni e questa è stata veramente speciale: c’è Cecov dentro e si sente dall’inizio. In questo teatro è stato Cecov come spettatore e drammaturgo. Credo che adesso, dopo stasera, è contento”.

Sul volto di De Fusco c’è felicità, soddisfazione, orgoglio napoletano e nei suoi occhi, una malcelata commozione, ma anche rammarico e disappunto. “E’ una gioia essere accolti in un teatro che è diretto da un regista perché da quello che ha appena detto fa capire che un artista comprende lo spettacolo di un altro artista in modo diverso da un direttore che artista non è. Sono contento che gli sia piaciuto in modo particolare il quarto atto perché è il momento in cui osiamo di più chiudendo la quarta parete ed è il momento in cui io ho più paura ed esco. E’ verissimo quello che dice sul senso della modernità e l’idea dello spettacolo mi è venuta pensando che sia il popolo russo che il popolo napoletano non hanno conosciuto la modernità. Sono rimasti all’Ottocento e non sono mai entrati nel Novecento. Quando Valery ed io iniziammo a parlare dello scambio, gli mandai tutti i dvd degli spettacoli che avevamo e credevo che scegliesse uno spettacolo napoletano come noi abbiamo scelto Dostoevsckij. Sono rimasto particolarmente colpito quando ha scelto Il giardino dei ciliegi. Lo spettacolo è soltanto il primo passo di una collaborazione che il Teatro Stabile di Napoli avvia con il Teatro Aleksandrinskij. Porterà ad una attività di scambio tra gli studenti della loro scuola e della nostra scuola di teatro, e anche ad una collaborazione artistica. Valery Fokin che quest’anno è già presente nel nostro cartellone con “Liturgia zero” (in scena il 21 e il 22 novembre al Politeama) nel 2017 tornerà a Napoli non più come ospite, ma con una produzione,Le troiane, così come da Napoli torneremo all’Aleksandrinskij. Una collaborazione importante e prestigiosa”. Quindi una stoccata ai napoletani, alle istizuzioni e alle polemiche che continuano e non si placano. “Gli applausi parlano da soli e ci verrebbe da dire scherzosamente ‘chiediamo asilo politico a San Pietroburgo’. C’è una totale discrasia tra come il nostro pubblico accoglie il Giardino dei ciliegi e come invece lo ha fatto il pubblico di San Pietroburgo. Fa specie, poi, che in una circostanza così importante, storica, perchè è un anno che abbiamo cominciato non sapendo se eravamo nazionali o no, lo siamo diventati con uno sforzo aziendale pazzesco da parte di tutti, si parli di svolta. Non capisco a quale svolta ci si riferisca perchè la svolta è già stata fatta. Abbiamo raddoppiato gli abbonati, abbiamo raddoppiato il budget, siamo andati un tutta europa in tournèe. Più che di svolta parlerei di incremento di quello che abbiamo già fatto. C’è un momento di crescita, se i soci vogliono cambiare il presidente ci dispiace perchè squadra che vince non si cambia. Chi dovesse arrivare al suo posto sappia, però, che ha un piano triennale aggiudicato. E’ eccellente tanto è vero che siamo passati dalla diciassettesima posizione alla settima. Dobbiamo fare meglio di quello che abbiamo fatto e questo significa strutture e non chiacchiere, non un regista in più o in meno perchè questo rientra nella mia autonomia di direttore artistico. Luca De Filippo aspetta, con noi, di conoscere la sede stabile della scuola. Lasciassero operare chi ha bene operato in termini artistici e di qualità e ci dotassero di strutture. Come teatri il Mediterraneo ci farebbe comodo. Per quanto riguarda il Trianon sembra che rientri in strategie comunali e regionali diverse. Se ci chiamano, ci siamo, altrimento non vogliamo invadere il campo di nessuno. Quello che ho imparato quardando le caratteristiche delle compagnie private è che se avessimo avuto un tasso di qualità ancora maggiore non saremmo risultati tra i primi sette, ma tra i primi tre. Comunque non sono abituato a contestare l’arbitro, quando la partita è finita”. Poi l’affondo finale. “Mentre la nostra prima attrice Elisabetta Pozzi si faceva male in maniera seria alla vigilia di una prima, L’Orestea, in cui erano impegnati tra attori e tecnici 45 persone e che è la prima più importante dell’anno, mi sarei aspettato che uno degli azionisti manifestasse con un suo comunicato la solidarietà per l’accaduto, come ha fatto Giulio Baffi. Invece in quello stesso giorno l’assessore Nino Daniele ha comunicato che nel 2017 forse potrebbe cambiare il direttore dello Stabile. E’ per me un fatto abbastanza inquietante. Napoli è entrata nel grand tour, la vogliamo fare scendere? Io mi farò ammazzare per evitare che ciò accada. E’ stato difficile farla entrare e dobbiamo fare di tutto per farcela rimanere. Siamo orgogliosi di rappresntare Napoli in questo modo e occorre risintonizzare la realtà virtuale che vivono i politici, che parlano di cose di cui non abbiamo notizia, con quello che facciamo ogni mattina”. Anche il presidente Adriano Giannola è uscito dal suo riserbo. “Tutte le notizie che mi riguardano le ho apprese dalla stampa. Preferirei riceverle in tempo e personalmente. Entro fine settembre devo convocare il cda perchè bisogna indire l’assemblea dei soci per ratificare la nomina del rappresentante del Mibac, Filippo Patroni Griffi”. Un’ultima notizia per dovere di cronaca. Per fornire un elemento di valutazione sull’importanza che il popolo russo dà al teatro e quanto la cultura faccia parte del suo dna riportiamo le informazioni che abbiamo ricevuto in occasione della visita ufficiale fatta dal managment dello Stabile e dalla stampa accreditata al backstage del centralissimo nuovo Teatro Mariinskij. Il “complesso” è composto dal teatro nuovo (2.000 posti), quello antico (1.600 posti) in fase di ristrutturazione e dalla sala concerti (1.100 posti). Gli spettacoli annui presentati complessivamente nelle tre “sale” sono 1.000 (tre al giorno) con una copertura dell’80% dei 4.700 posti disponibili. Il costo medio del biglietto è 25/30 euro ( si consideri che la pensione di un lavoratore mediamente è di 100 euro).

Mimmo Sica

(Foto teatrostabilenapoli.it)

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