L’eterna gavetta a tre euro al pezzo

Angeli a pezzi: Inchiesta dal basso sul Mercato del Lavoro – V Puntata

Il tram “racconta leggende, mentre veloce va al mare” …è il tram che prendo tutti i giorni: Cimitero, Carcere, Stazione, Università, Porto. Una navicella spaziale che collega mondi non collegabili. Sale e scende un’umanità immensa e varia, che si disperde indistinta nel mio sguardo.

La nana che bestemmia e che, ogni volta, mi fa supporre che è il mio giorno fortunato e che ingarro il terno secco: 2-9-33. MAI.

La moglie del carcerato che scappa dal dolore, ostentando aggressività erotiche e tatuaggi mal fatti. Il bambino gonfio di merendine sintetiche che piange tutto il tragitto. Barboni, turisti e scippatori. Un film, in cui l’unico lieto fine possibile è il capolinea, dove si scende tutti. Io ascolto le conversazioni degli altri. Non è morbosità, ma solo uno stratagemma per sfuggire alle compulsioni da telefonino. Ascolto, senza ascoltare: l’indifferenza dell’Uomo liquido, che assorbe informazioni, senza trattenerle. In linea di massima, però, posso dire che sul tram  si parla sempre di soldi. Cose e mai sentimenti: come se questa navicella spaziale fosse così legata alla terra, da non conoscere altro che terra.

Due madri si stanno confrontando su questa sciagura: i rispettivi figli vogliono vivere insieme. “Quello, mio figlio, non ha neanche duemila euro sul conto”. “Perché: cosa pensi che mia figlia li abbia?”

I due promessi sposi sono borghesi, si capisce dalla lingua e dal comportamento delle mamme. Quel misterioso ceto impiegatizio, che ha occupato quella parte di Napoli sospesa tra Piazza Nazionale e Via Stadera. Quartiere strano, dove si alternano e convivono, spesso scontrandosi, classi e destini completamente diversi.

Pensa che per comprare una moto a rate, abbiamo dovuto firmare sia io che mio marito.”E’ una scelta stupita vivere insieme: di fatto già lo fanno, stando un pochino da noi e un pochino da voi

Non riesco a capire l’età dei due piccioncini o, almeno, se sono in quel periodo critico della esistenza in cui nascono idee strane rispetto alla riproduzione.

Lui fa il giornalista. Contrattualizzato, a intermittenza, in uno di quei service oscuri, dove si confezionano pagine di giornali. L’eterna gavetta, a tre euro a pezzo, da cui si esce, dopo il calvario degli stage e contrattini pezzotto vari, disoccupati ad oltranza. Ma, oltre che disoccupati, si diventa anonimi, senza arte né parte, avendo compilato tabelle e esercitato il nobile mestiere del copia&incolla. Una specie di centrifuga professionale da cui, su migliaia di esseri umani spremuti, escono una decina di giornalisti assunti.

  Il resto è “rifiuto umano non riciclabile”, senza competenze e reti sociali: firme, senza firma. Nel senso che, anche se è vero che un aspirante giornalista può fare il badante di qualche anziano, diventa difficilissimo farlo. Perché dopo aver messo amore, aspettative, soldi, competenza per decenni in questo sogno, il prezzo psicologico da pagare, per non esserci riuscito, è altissimo. Troppo alto, per alcuni, così si inizia un declino livido, fatto di desideri nevrotici, di bravure inesistenti: Attese di attese, sempre vane. È la dittatura della identità, che si trasforma in una mattanza esistenziale: fingere di essere, fingere di essere stato, fingere di poterlo diventare.

Luca Musella

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