Terremoto ’80: il patto delle “concessioni” siglato da Dc, Pci e sindacato

Un fiume di danaro circa 58 mila miliardi di lire si diresse verso un’area delimitata agli estremi dalle città di Napoli, Avellino Potenza e Salerno.

Sono passati quarant’anni da quel terribile terremoto  che alle 19.34 del 23 novembre 1980 colpì la Campania e la Basilicata, lasciandole profondamente martoriate. Oggi in quei territori la ricostruzione è quasi completata, ma la ricorrenza del 40/o anniversario restituisce ricordi drammatici. Non solo per i lutti e le rovine ma anche per le ruberie di tanti sciacalli, che in nome della solita emergenza,  hanno allungato le mani sulle ingentissime risorse stanziate dallo Stato. Un fiume di danaro (la commissione parlamentare d’inchiesta stimò in 50.902 miliardi di lire, ma nel corso del tempo la cifra è lievitata a 58.640 miliardi) si diresse verso un’area delimitata agli estremi dalle città di Napoli, Avellino Potenza e Salerno.

I comuni effettivamente colpiti erano relativamente pochi: qualche decina i disastrati, un centinaio i danneggiati in modo più o meno grave. Nel maggio dell’81 però un decreto dell’allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani classificò “gravemente danneggiati” (con un grado di distruzione dal 5 al 50 per cento del patrimonio edilizio) oltre 280 comuni: venne ricompresa tutta la provincia di Avellino, Napoli e la popolosissima area metropolitana, 55 comuni del salernitano, 34 del potentino. Risultarono “gravemente danneggiati” anche 50 paesi in provincia di Benevento, 8 in provincia di Caserta, 9 in provincia di Matera. Sei mesi dopo, il disastro venne ulteriormente allargato sulla carta: altri 312 comuni furono considerati “danneggiati”, 14 dei quali in Puglia, in provincia di Foggia. L’area colpita dal sisma mutò ancora una volta: la punta più avanzata a nord diviene Teano, ai confini con il Lazio, la linea si chiuse a sud con Sapri, sul golfo di Policastro, e a est con Ferrandina, nella piana che finisce sullo Jonio. Entrare o meno nella lista significava soprattutto essere o no destinatari di sontuosi contributi statali. Due intere regioni, la Campania e la Basilicata, e un pezzetto di una terza, la Puglia, risultarono “terremotate”: in totale i comuni ammessi alle provvidenze furono 687. In effetti il sisma danneggiò in misura più o meno grave 100 mila abitazioni. Le case da “riparare” o da “ricostruire”, già finanziate dal governo, erano 146mila. Era stata decisa la ricostruzione di 31.542 abitazioni nei comuni classificati disastrati, tremila in più delle case precedentemente dichiarate distrutte o gravemente danneggiate (28.274). E nei centri classificati “gravemente danneggiati” o solamente “danneggiati” il finanziamento statale aveva permesso l’edificazione di 115.121 abitazioni, quasi il doppio di quelle (69.140) dichiarate distrutte, gravemente danneggiate o soltanto lesionate.

Il grande affare si consuma a Napoli e Provincia: dovevano essere costruiti 7 mila 704 alloggi (con una spesa di quasi 900 miliardi) per ospitare i terremotati del capoluogo. Ma avvenne un “miracolo”: i  900 miliardi si moltiplicarono per dieci per finanziare un massiccio piano edilizio-residenziale con lavori assegnati a un esclusivo club di 29 imprese concessionarie  senza una sola gara d’ appalto con un prezzo superiore del 40 per cento a quello di mercato, anticipazioni degli importi fino al 20 per cento e ribassi del 50 per cento nei subappalti. Un Club esclusivo sempre presente con sigle, società e partecipazioni diverse nel gran miracolo della moltiplicazione:  Cabib,  Giustino, Corsicato, De Lieto, Buontempo, Brancaccio, Zecchina, Raiola, Fondedile, Icla e le Coop rosse, Edilcoop, Edilter, Cooperative Costruttori.

Il sistema delle concessioni fu avallato dal grande patto politico siglato a livello nazionale e locale tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Un patto che si concretizzò con l’approvazione della  legge 219 e la nomina del Commissario straordinario. Grazie alla legge 219, i concessionari ottennero il potere di gestire tutte le fasi del programma dalla progettazione urbanistica alla consegna delle opere. Le imprese esecutrici del programma Napoli furono 661 ma solo 67, il 10 per cento, facevano parte dei consorzi concessionari. Tutto il resto fu intermediazione finanziaria di seconda, terza, quarta mano. In particolare su 661 imprese, 237 operarono per il Commissario senza essere iscritte all’ Albo dei costruttori, 6500 operai lavorarono senza essere iscritti alla Cassa Edile. Il sistema delle concessioni fu sostenuto dai vertici regionali della Fillea Cgil, il sindacato degli edili della Cgil, in particolare dal segretario generale, il bassoliniano Michele Gravano. L’inizio di una sorta di consociativismo con l’ associazione dei costruttori e settori politici vicini al Pci.

 E così spuntò, dal terremoto e da quella “miracolosa ricostruzione”, il cosiddetto modello delle concessioni, promosso secondo la solita logica dell’emergenza e dei commissari straordinari, attuato poi su tutto il vastissimo fronte delle opere pubbliche e valido ancor oggi: dalle imprese, spesso scatole vuote, direttamente tutto in subappalto, diviso in comode fette, con la supervisione dei politici, locali e nazionali. E senza lo straccio di un controllo, anzi con la farsa delle “commissioni di collaudo” (con la regolare presenza di magistrati al loro interno) pagate dai concessionari.

Ciro Crescentini

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