Il figlio del boss che rifiuta la camorra: “Non è vita, il malavitoso muore ogni giorno”

Antonio Piccirillo era in piazza alla manifestazione anti camorra dopo il ferimento di Noemi. L’incontro con gli studenti del Pagano-Bernini, dove studiava: “Non è vero che tutti i camorristi si arricchiscono, e comunque condannano i figli a vivere con la paura di essere uccisi. Non rinnego mio padre, ma la sua scelta. Esorto gli insegnanti ad andare a prendere i ragazzini nelle case, la scuola è bellezza, non è un carcere”

Non vuole essere l’ennesima icona anti camorra. “Io non sono un pentito e non ho mai avuto a che fare con la criminalità organizzata. Io non parlo di nessuno né ho la facoltà per farlo, io voglio parlare dei giovani”. Antonio Piccirillo ha 23 anni e rivendica solo il diritto alla normalità. Una normalità negata a lui e quelli come lui: i figli dei camorristi. In tanti l’hanno scoperto il 5 maggio, all’indomani del ferimento della piccola Noemi. Quel giorno Antonio era in piazza contro la camorra. La stessa camorra che gli ha rovinato l’esistenza. Lui, figlio di Rosario Piccirillo ‘o biondo, boss della Torretta. Il giovane oggi è tornato al Pagano-Bernini, la sua vecchia scuola, per incontrare gli studenti. Accanto a lui gli insegnanti e gli attivisti di Libera. Qui ha raccontato l’orrore della malavita e, di riflesso, sé stesso. “La mia vita purtroppo mi ha segnato. Mi sono distaccato da tutto quello che mi ha fatto male. Ho deciso di non andare più da mio padre, vederlo in una cella di due metri fa male”. Antonio da ragazzino era un talento del calcio, e forse la camorra gli ha negato un futuro da giocatore. Oggi gli tocca dribblare le scivolate dei media, a cui deve ancora abituarsi. “Hanno scritto che rinnego mio padre – dice- ma io rinnego la sua scelta, non lui”. Ai ragazzi poco più giovani si mostra come è. È intelligente, pesa ogni parola, misura i congiuntivi. Uno con la sua testa poteva essere un capo, nella logica spietata dei clan. Invece ha preso un’altra via. “Quando arrivi all’età della coscienza – sostiene-, inizi a capire che questa vita non può essere chiamata vita. Si pensa che il malavitoso vive male perché o muore in carcere o muore ucciso. Invece muore tutti i giorni. E i figli dei malavitosi muoiono tutti i giorni”. Quando ha deciso di opporsi alla legge di camorra? “Quando ho voluto smettere di essere ‘il figlio di’. Io ragazzo perbene, potevo trovarmi di fronte qualcuno che mi sputava sui piedi o mi dava uno schiaffo, per farmi capire che non aveva paura di mio padre”.

 

 

La camorra vuole combatterla smentendone i miti. E non usa slogan, ma esempi concreti. “L’unica giustificazione che i padri e i figli prendono da questa vita sono i soldi. Ma su 100 malavitosi solo 3 hanno fatti i soldi, gli altri 97 muoiono di fame, ed è giusto sia così. Io i soldi non ce li ho e non li voglio”. E poi c’è un’ombra sempre dietro di te. “Quante volte camminando in auto con papà – spiega – uno stop, una suonata di clacson più forte mi ha fatto vivere la paura di morire. E anche questi genitori hanno questa paura perenne”. Non vuole passare per vittimista, ma avverte: “Noi figli siamo vittime che se non prendono le distanze dai genitori, le persone che più amiamo al mondo, non ne escono più”. Antonio parla ai figli dei camorristi, ma se potesse si rivolgerebbe pure ai padri (“Avrei piacere se dal carcere volessero dialogare con me”). Con il suo ci ha provato. “Ho cercato di dargli una possibilità, anche se – ammette – può essere utopico. È un obbligo morale che un figlio ci provi a salvare suo padre, ho cercato di fargli capire in tutti i modi che questa vita non è per me”. Eppure, riesce a considerarsi “fortunato”, perché “ho avuto una famiglia malavitosa diversa da quelle malavitose, non mi hanno detto che era giusto proseguire sulla strada del crimine”. E per questo non è contrario, in certi casi, ad allontanare i ragazzi dai genitori camorristi. “Come al Pallonetto – ricorda – dove avevano messo i bambini a confezionare le dosi di droga”. L’esempio di Antonio può essere una forza. Accanto a lui c’è già chi lo sta seguendo: il cugino Michele, alunno dell’istituto. Destino comune, anche lui un papà in galera per alcuni anni. “All’inizio – racconta il ragazzo – volevo lasciare la scuola perché la sera vado a lavorare, ma poi l’ho vista come una svolta. E adesso vado a migliorare in ogni interrogazione: voglio essere apprezzato”. Per Antonio e Michele il riscatto passa dall’istruzione. Un messaggio chiaro, nella Napoli dove troppi sono in fuga dai banchi. “Esorto i professori – è l’appello di Antonio – a fare un lavoro diverso: i ragazzini per me si devono prendere dalle case, e dare un senso di scuola diverso. La scuola non è un luogo di sofferenza, quello è il carcere, la scuola è un luogo di allegria e di bellezza”.

Gianmaria Roberti

 

 

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