Io Dalì

 

Le opere di un grande artista

Al Pan, il Palazzo delle Arti di Napoli, dal 1 marzo al 10 giugno si è svolta la mostra dedicata al celeberrimo pittore surrealista Salvador Dalì. Più che pittore sarebbe opportuno definirlo artista, in quanto nella sua lunga vita si è dedicato a molteplici attività nel campo dell’arte, e non solo.

“Dipingere è una parte infinitamente piccola della mia personalità.”

Uno dei focus principali che si poteva trovare all’interno della mostra, in particolar modo all’entrata e all’uscita, era sul Teatro-Museo Dalì, quello che l’artista stesso aprì nel suo paese di nascita, Figueres, e a cui teneva moltissimo.

Un museo nel museo, un gioco di specchi che attraverso i loro riflessi donano allo spettatore una visuale del tutto inattesa. Una matrioska artistica e biografica, le cui bambole non finiscono mai.

L’edificio si chiama così proprio perché la parte centrale del museo stesso è l’ex teatro del paese, funzionante all’epoca in cui il pittore era un bambino. L’intera costruzione è forse di quanto più rappresentativo ci possa essere, in quanto al suo interno sono raccolte alcuni dei suoi quadri più famosi come La persistenza della memoria, Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, Ritratto di mio padre, ma anche opere sconosciute ai più che ci mostrano un Dalì ancor più complesso di quello che potevamo immaginare o conoscere dai tempi della scuola.

 

Da menzionare assolutamente il maestoso affresco Salvador Dalì e Gala ascendente verso il cielo che viene riproposto anche all’uscita della mostra stessa, e che decora uno dei soffitti dell’edificio, raffigurante sua moglie Gala e lui dal basso verso l’alto in una sorta di ambientazione rinascimentale. Sicuramente suggestiva la visione di questi corpi dal basso: le piante dei piedi piantate saldamente su un pavimento invisibile, spingono i corpi verso l’alto, corpi di cui non si vede la testa. La donna è formosa, simile a una dea madre, simbolo di fertilità nonostante non gli abbia mai potuto dare dei figli a causa di un’isterectomia, unico grande amore dell’artista; dell’uomo si riconoscono i caratteristici e sottili baffi all’insù ed è rappresentato come un insieme di cassetti vuoti, dipinti al contrario in modo da mostrarne la vuotezza, come a indicare l’assenza di quella virilità che un tempo gli apparteneva.

Altra opera importante messa in evidenza è quella dedicata all’attrice hollywoodiana Mae West, The Mae West room, ispirata al quadro Il volto di Mae West realizzato tra il 1934-35, composta da diversi elementi atti a formare il volto della donna in prospettiva: un divano a forma di labbra, quadri al posto degli occhi e via dicendo.

Last but not least la collezione dei trentanove gioielli progettata e realizzata da Dalí stesso tra il 1941 e il 1970, forse l’aspetto che di lui meno conosciamo. L’attenzione è stata posta soprattutto su Il cuore reale e L’Uva dell’immortalità. Il primo, realizzato nel 1953, è particolarmente suggestivo in quanto composto da un grande cuore dorato incoronato, al cui interno ve ne é uno più piccolo fatto di quarantesei rubini palpitanti, reso vivo da un meccanismo interno, e arricchito da diamanti e smeraldi.

“Senza un pubblico, senza la presenza di spettatori, questi gioielli non compierebbero appieno la funzione per cui sono stati realizzati. Chi li guarda è, di conseguenza, il vero artista.”

L’uva dell’immortalità, realizzata da Dalì nel 1970, è costituita da teschi di oro 18 carati e smeraldi che formano l’apice del grappolo, mentre gli acini sono stati lavorati con ametista e quarzo affumicato. Il suo valore è altamente simbolico: rappresenta la vittoria della vita sulla morte ed è l’espressione di quanto la tematica mistico-religiosa stesse a cuore all’artista. Egli stesso, infatti, dichiarò, in un documentario che era proiettato in una piccola sala organizzata nell’ambito della mostra stessa, che pensando all’immortalità della sua anima riusciva a sentirsi sollevato e sentiva ogni preoccupazione svanire. A proposito di ciò, probabilmente poco si pone l’accento sulla fede cattolica di Dalì e su quanto essa, arricchita dai suoi studi alchemici, si traduca in opere dal simbolismo profondo, mirato, sempre più radicato con l’avanzare del tempo e della sua produzione, di cui l’uva dell’immortalità risulta essere senz’altro un valido esempio.

Degna di nota, inoltre, la sezione “Esperimenti scientifici. La passione per la scienza”, dove, accanto ad un’accurata rassegna delle opere realizzate dal 1960 al 1973, con inserimento di relativi eventi salienti ed onorificenze ricevute, veniva messo in risalto un aspetto di Dalì decisamente sconosciuto ai più, ovvero la sua attenzione verso la scienza e soprattutto verso le nuove scoperte nel campo della fisica. Egli stesso, in merito, dichiarò:

«Nella prima fase della mia vita il mio eroe era Sigmund Freud. La mia pittura esprimeva le angosce e le visioni nevrotiche che avevo in quel momento. Ora invece il mio eroe è il fisico Werner Heisenberg, perché le sue idee riflettono un maggior contatto con Dio e con l’unità cosmica».

Il continuo aggiornamento in campo scientifico, dunque, divenne fondamentale per Dalì, lì dove fulcro della sua arte era cogliere il mistero eterno dello spirito che è custodito nel corpo e nella pelle che ne delinea la superficie.

«Ho sempre vissuto nell’ossessione di dipingere ciò che mi avvolge. Così come il mio cappotto mantiene la forma del mio corpo dopo che lo tolgo, o il guanto di una donna conserva la forma della sua mano o magari una traccia del suo profumo, la pelle senza il corpo custodisce la forma dell’individuo e il mistero eterno del suo spirito».

Quindi, se ne La persistenza della memoria Dalì sconvolgeva la concezione ritmica del tempo affermando quella relativistica einsteiniana, con l’evoluzione del suo pensiero (nonché delle sue necessità interiori) e il radicarsi della fede cattolica, la sua arte si incentra sullo studio dell’immagine tridimensionale, e su come questa possa suggerire, attraverso le sue forme, la propria essenza; non solo: per poter “conservare” l’essenza delle cose il cui corpo è destinato a deperire nel tempo, Dalì studiò e applicò in gran parte delle sue opere la tecnica dell’olografia, la quale consiste nella generazione su un’emulsione fotografica di una figura di interferenze derivanti dalla luce riflessa da oggetti colpiti da un fascio di luce laser. La lastra olografica viene poi sottoposta a sviluppo fotografico per fissare in modo permanente la figura d’interferenza registrata sull’emulsione, ottenendo così un ologramma, definibile anche come una “fotografia senza lenti”.  Dalì, tramite queste applicazioni, voleva tentare di raggiungere una “quarta dimensione”, quella dell’anima immortale.

                                                             Laura Andrea Parascandolo, Primarosa Pugliese

 

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